venerdì 4 maggio 2012

C'era una volta la FA Cup

Questo esce domani su Alias (l'inserto del sabato del Manifesto).

C'era una volta la finale di FA Cup. C'era una volta un evento che catalizzava l'attenzione di una intera nazione, perché rappresentava la partita più importante e attesa dell'anno. C'era una volta una competizione che per il suo atto conclusivo proponeva una piacevole alternanza di team, con le sorprese sempre a fare capolino, creando leggende calcistiche di cui si parla ancora dopo decenni. Ora tanto, verrebbe da dire troppo, è cambiato. La coppa più antica del mondo – è nata nel 1871 – è ormai stata relegata nelle retrovie delle gerarchie calcistiche dalla Premiership e dalla Champions League, espressioni principe del cosiddetto corporate football. Non a caso l'inizio della decadenza è coinciso con la stagione 1996-97, allorché fu assicurata la qualificazione nel massimo torneo continentale anche alla seconda classificata in campionato, che così incrementò ulteriormente la sua importanza. Un altro segnale inquietante ma allo stesso tempo molto sintomatico fu l'auto-esclusione del Manchester United dall'edizione 1999-2000 per partecipare a uno dei tornei più insulsi della storia del calcio – il Fifa Club World Championship tenutosi a Rio De Janeiro. I puristi del Beautiful Game iniziarono a sudare freddo, ben consci che difficilmente si sarebbe invertita questa inquietante tendenza.

Ormai l'atto finale della FA Cup se lo disputano le solite note – non a caso quest'anno si incontrano Chelsea e Liverpool – con l'unica eccezione che conferma la regola della finale del 2008. Ovvero quando l'indebitatissimo Portsmouth (appena retrocesso in terza serie), allora allenato da Harry Redknapp, ebbe la meglio sul piccolo Cardiff City (squadra di quella che una volta si chiamava Seconda Divisione) con un goal dell'ex interista Nwankwo Kanu.

Già allora si giocava sotto l'arco. Non più all'ombra delle due torri del vecchio Wembley, il tempio indiscusso del calcio mondiale tra il 1923 e il 2000, inaugurato proprio in occasione di una finale di coppa tra Bolton Wanderers e West Ham e già entrato nella leggenda con quella primissima partita. Si giocò con la gente accalcata ai bordi del campo. Forse nell'immensa arena erano riuscite a entrare fino a 250mila persone, ma anche fuori la marea umana era tale che i giocatori del Bolton si fecero a piedi le ultime due miglia di tragitto. La Metropolitan Police dovette fronteggiare una situazione di estrema emergenza, un vero incubo dal punto di vista dell'ordine pubblico. I feriti furono più di mille, ma fortunatamente nessuno perse la vita. Merito del poliziotto George Scorey e del suo cavallo Billy, tra i più attivi a sgombrare il manto erboso e a tenere a bada la folla. Ma il contesto a dir poco “singolare” fece sì che i giocatori non poterono rientrare negli spogliatoi nell'intervallo e, si mormora, il Bolton riuscì a segnare il secondo goal sebbene la palla fosse uscita. L'arbitro non si accorse – o preferì non accorgersi – che a toccare la sfera fosse stato un tifoso a bordo campo. Quella gara sarà ricordata per sempre come la “White Horse Final”, in omaggio a Billy.

Tornando al presente, va detto che anche l'orario, almeno per l'edizione di quest'anno, è cambiato. Le ore tre locali (quattro da noi) sono state abbandonate per fare un favore alle televisioni – sai che novità... – e non è detto che le cinque e un quarto non possano diventare la regola. Certo, pure nel 1873 si posticipò l'inizio della sfida, ma solo perché numerosi membri delle due squadre (Wanderers e Oxford University) avevano studiato presso le università di Oxford e Cambridge e si volevano godere l'annuale sfida di canottaggio sul Tamigi tra i due armi.

Altri tempi; allora regnava il dilettantismo un po' snobistico dei ricchi figli di papà, che avrebbe ben presto lasciato strada al professionismo targato working class della fine del Diciannovesimo Secolo. Già, la classe operaia. Per decenni la distanza in termini sociali e di reddito tra giocatori e tifosi è rimasta molto contenuta – in verità anche perché fino al 1964 era esistito un tetto salariale molto rigido. Fin verso gli anni Settanta era consuetudine un po' per tutti avere anche un'altra occupazione, soprattutto a inizio carriera. La giovane promessa poteva così tutelarsi in caso di scarso successo nel mondo del calcio, ma anche apprendere un mestiere per quando avrebbe appeso gli scarpini al chiodo. Il soprannome di Tom Finney, uno dei migliori giocatori inglesi del secondo dopoguerra, era “l'idraulico di Preston” non per caso. Mentre segnava goal a grappoli, Jimmy Greaves (nel 1961 visto di sfuggita anche in Italia con la maglia del Milan) gestiva una piccola impresa di sgombero cantine...

C'è un brano di un'intervista di Franck McLintock che rende perfettamente l'idea del tipo di vita che conducevano i calciatori di quei tempi, riportandoci inoltre all'atmosfera della finali di Coppa pre-corporate football. Prima di diventare una bandiera dell'Arsenal negli anni Settanta, il difensore scozzese si era messo in evidenza nelle fila del Leicester City. Nel 1961 la sua squadra sfruttò al meglio la presenza tra i pali di Gordon Banks, uno dei migliori portieri di tutti i tempi, per arrivare a giocarsi la FA Cup contro il celestiale Tottenham di Billy Nicholson (poi vincitore con un classico 2-0).

“Ogni mattina mi svegliavo alle 6.30, prendevo la bicicletta e andavo a lavorare. Facevo l'apprendista pittore e decoratore. Poi ovviamente c'erano gli allenamenti. Il venerdì prima della finale ho seguito la stessa routine. Finito di lavorare sono tornato a casa, mi sono rasato e ho fatto una bella doccia per poi raggiungere Filbert Street (lo stadio del Leicester dal 1891 al 2002). Lì mi attendeva il pullman della squadra diretto a Londra. Nella capitale abbiamo soggiornato al Dorchester Hotel, dove ho avuto il piacere di incontrare Elisabeth Taylor e Richard Burton. Il sabato ho giocato a Wembley, di fronte a 100mila persone. Il lunedì ero di nuovo a lavoro, come se nulla fosse. Vi immaginate uno come David Beckham fare lo stesso? No, vero?”.

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