giovedì 26 luglio 2012

Il team GB torna alle Olimpiadi

Pubblicato oggi dal Manifesto.

Da mesi il metrosexual più famoso al mondo – David Beckham – si era detto entusiasta di indossare la (brutta) maglietta blu con inserti bianchi e rossi che evocano la Union Jack disegnata da Stella McCartney per le olimpiadi londinesi.

Per l’ex stella del Manchester United il torneo di calcio in programma ai Giochi, e a cui la Gran Bretagna parteciperà per la prima volta in 40 anni, avrebbe dovuto rappresentare l’ultima grande passerella internazionale.

Invece per volere del tecnico della nazionale Stuart “Psyco” Pearce il ragazzo di Leyton – quartiere dell’Est End che diede i natali anche ad Alfred Hitchcock – le sue Olimpiadi se le dovrà godere tutte da spettatore. “Beckham è un eroe nazionale” si è lamentato ieri anche Paul McCartney. “Pensavo che sarebbe stato la prima scelta per la squadra, visto quello che ha fatto per portare le Olimpiadi a Londra. Ma qualche idiota ha deciso diversamente”.

E pensare che la genesi dell’attuale Team GB di football è stata quanta mai travagliata. Quando, una volta assegnati i giochi alla capitale inglese, il comitato olimpico decise di tenere la prima riunione con esponenti delle quattro federazioni calcistiche del Regno Unito, gli scozzesi non si presero nemmeno la briga di presentarsi. Ben presto si sfilarono anche gallesi e nord-irlandesi, per il timore che, “riformato” un team unico britannico, la Fifa potesse revocare lo status particolare alle Home Nations pure nelle altre competizioni. Ovvero niente più Scozia o Galles ai Mondiali e agli Europei di calcio.

Una paura infondata, come confermato dal massimo organo calcistico internazionale. Ma scozzesi, gallesi e nord-irlandesi sono rimasti scettici, fino a preferire una squadra composta da soli inglesi pur di non essere coinvolti nel progetto. Poi tutto si è ricomposto e alla fine il team GB sarà capitanato da un gallese longevo e dotato di una tecnica sopraffina come Ryan Giggs. Uno che ha fatto incetta di trofei con il Manchester United, ma che con il dragone sul petto ha raccolto solo briciole. Ci saranno pure due suoi connazionali illustri – Craig Bellamy e Aaron Ramsey – ma non Gareth Bale, infortunato.

Di scozzesi e nord-irlandesi Pearce non ne ha chiamati – ma più per evidente mancanza di “materiale umano” all’altezza che per fare uno sgarbo alle rispettive federazioni – mentre buoni e promettenti giocatori inglesi ce ne sono parecchi (Micah Richards, Dean Sturridge e Tom Cleverley). Inserita in un girone di media difficoltà, con Uruguay, Emirati Arabi Uniti e il Senegal che incontrerà nella gara inaugurale, la Gran Bretagna dovrà fare quasi un miracolo per vincere la medaglia d’oro. Super favorite sono il Brasile dalle tante stelle e lo stesso Uruguay di Edinson Cavani.

Il fattore campo diventa allora di cruciale importanza. Un po’ come fu nel 1908, per la prima delle tre Olimpiadi londinesi. In quella edizione e nella successiva a Stoccolma i britannici si potevano ancora fregiare del titolo di maestri del football e, in effetti, sbaragliarono la concorrenza senza troppi patemi d’animo. In campo solo calciatori inglesi, tutti dilettanti. In entrambe le occasioni a uscire sconfitti in finale furono i danesi guidati da Nils Middelboe, primo fuoriclasse straniero della storia del Chelsea. Il portiere del team GB del 1912 era Rob Brebner, morto due anni dopo per le conseguenze di uno scontro di gioco con un giocatore del Leicester Fosse.

Nel 1948 Londra su scelta come sede dei primi Giochi del secondo Dopo Guerra, ma nonostante un allenatore destinato a fare la storia del Manchester United come l’allora giovane Matt Busby, i fasti del 1908 non furono ripetuti. Nelle Olimpiadi del razionamento, con mezza città ancora devastata dalle incursioni dei caccia tedeschi, il Regno Unito si fece sorprendere in semifinale dalla Yugoslavia e dovette soccombere contro la Danimarca, che così si prese una parziale rivincita nel match valido per la medaglia di bronzo. Per la cronaca, si impose la Svezia forte del trio (di lì a poco milanista) Gren-Nordhal-Liedholm.

Poi seguì una serie di figuracce, culminata nell’umiliante 5-0 subito dalla Bulgaria nelle qualificazioni per Monaco 1972. Il team GB sarebbe quindi rimasto in naftalina per chissà quanti anni ancora, se il Cio non avesse deciso di assegnare per la terza volta i Giochi alla Gran Bretagna.

mercoledì 25 luglio 2012

Addio Portsmouth?

Mentre sembra sia imminente un accordo tra i Rangers e la Scottish Football Association, che permetterà così alla compagine di Glasgow di giocare il campionato di quarta serie, continua a navigare in acque molto burrascose il Portsmouth. L’amministratore temporaneo del club ha comunicato che se entro il 10 agosto non sarà raggiunta un’intesa sulla riduzione dei salari di otto giocatori ancora in forza ai Pompey (tra cui Nwankwo Kanu e Tal Ben Haim), il club sparirà.

Il Supporters’ Trust e l’ex proprietario Balram Chainrai potrebbero rilevare la società, ma solo se il monte ingaggi sarà ridimensionato in maniera drastica, liberando così preziose risorse economiche per pagare altri debiti di lunga data. Ben Haim ha ancora un contratto di 36mila sterline a settimana, mentre Kanu vanterebbe nei confronti del Portsmouth un credito di circa tre milioni di euro. Speriamo nell'ennesimo miracolo, a cui forse potrà contribuire anche l'ex manager Harry Redknapp. L'allenatore che guidò il team alla vittoria nella FA Cup del 2008 ha infatti promesso di "dare una mano" ai Pompey.

lunedì 23 luglio 2012

Buoni e cattivi della Premier 2011-12

In attesa della nuova stagione, un pezzo scritto per Calcio 2000 che fa il punto sulla scorsa annata di Premier.

Miglior Team
Chi vince ha sempre ragione. Il Manchester City è ridiventato campione d'Inghilterra dopo 44 anni di dolorosa astinenza grazie alla miglior differenza reti rispetto ai cugini dello United e in un finale di campionato così rocambolesco che può essere paragonato a quello del 1989, con il famoso goal di Michael Thomas nel Liverpool-Arsenal immortalato da Nick Hornby nel suo Febbre a 90. Ma al di là delle contingenze particolari, la squadra allenata da Roberto Mancini – secondo tecnico italiano dopo Carlo Ancelotti a trionfare in Premier – ha meritato il titolo. I Light Blues hanno espresso la miglior qualità di gioco nell'arco di tutto il campionato, con una pausa significativa che li aveva portati a ben otto punti di distacco dai rivali la domenica di Pasqua. La rosa del City è di così forte ed estesa che in tanti avevano pronosticato un passaggio di testimone, specialmente dopo il fragoroso 6-1 dell'Old Trafford. Ma era importante anche mostrare la necessaria maturità, specialmente quando c'è stato da recuperare, da crederci ancora quando l'ennesima beffa nella storia dei Light Blues sembrava a un passo. Già, le beffe. Molto addetti ai lavori hanno affermato che il team di Eastlands stava perdendo il campionato da City, ma poi non lo ha vinto da City, ovvero ha compiuto un'impresa che era più nelle corde dello United. Che sia stata una svolta storica, l'inizio di una “dinastia”, come preconizzano in Inghilterra? Certo è che i denari in cassa ci sono, eccome. Al momento di aggiustamenti ne servono pochi, forse l'unico reparto che potrebbe vivere qualche parziale rivoluzione è l'attacco, con Mario Balotelli e Edin Dzeko dati come possibili partenti. Per il resto, se a centrocampo hai dei giocolieri come David Silva e Samir Nasri e un baluardo come Yaya Touré, c'è ben poco di cui preoccuparsi. Anzi, si può ritentare l'avventura in Champions League con qualche speranza in più.

Top Player
C'è poco da fare, quando gli infortuni non lo flagellano, come purtroppo accaduto molto spesso in passato, Robin Van Persie conferma di essere tra i primi 4-5 attaccanti al mondo. L'olandese non è un centravanti alla Ruud Van Nistelrooy, tanto per fare un paragone con un suo illustre connazionale, ma un giocatore offensivo “moderno”, ovvero estremamente malleabile, come piace al suo allenatore Arsene Wenger. È indubbio che anno dopo anno stia affinando il suo fiuto del goal e che sia in grado di trafiggere i portieri avversari un po' in tutti i modi: di classe, di astuzia e di potenza. Le sue doti tecniche non si discutono e non le scopriamo certo noi. Il nuovo capocannoniere della Premier (30 i centri per lui, nella storia della Premier solo cinque top scorer avevano finito con un bottino di reti superiore) sta però anche smussando gli angoli di un carattere non sempre proprio all'altezza della situazione. Adesso toccherà vedere se le tante sirene sparse per l'Europa lo sapranno incantare, strappandolo all'Arsenal dopo otto stagioni di permanenza a Londra. Il terzo posto raggiunto in extremis in campionato, con conseguente qualificazione automatica in Champions League, rafforza le speranze dei fedelissimi dei Gunners di poterlo ammirare all'Emirates anche nel 2012-13. Intanto il ragazzone di Rotterdam ha fatto incetta di premi: sia per i suoi colleghi che per la stampa specializzata è stato lui il miglior giocatore dell'anno. Dopo i trofei individuali, è arrivato il tempo di vincere qualche campionato o qualche coppa. In Inghilterra oppure altrove?

La delusione dell'anno
Non è un paradosso. Sebbene con la vittoria in Coppa di Lega contro il Cardiff il Liverpool sia tornato ad alzare un trofeo dopo sei anni di astinenza, i Reds sono senza dubbio la squadra flop del 2011-12. La nuova proprietà americana aveva in mente un pronto ritorno in Champions League, quando l'estate scorsa ha investito oltre 50 milioni di euro per portare ad Anfield Road giovani rampanti del calibro di Jordan Henderson, Sebastian Coates e giocatori di provata esperienza e qualità come Stewart Downing e Charlie Adam. Poteva essere l'anno buono, viste le continue amnesie di Arsenal e Tottenham e i periodi di crisi profonda del Chelsea. Nulla da fare, invece. Il Liverpool non è mai apparso in grado di impensierire minimamente le pretendenti al quarto posto. L'affaire Suarez e il brutto infortunio a Lucas Leiva (fuori da fine novembre) non giustificano tanta mediocrità, fatta di sfilze di pareggi in casa e tante sconfitte – un po' ovunque – in trasferta. Nemmeno la bella cavalcata in FA Cup, comprensiva di derby vinto in semifinale, possono cancellare un campionato scialbo, che solo per la differenza reti favorevole nei confronti del Fulham non sarà ricordato come il primo dal 1962-63 con il Liverpool fuori dalle prime otto. Ad ogni modo era dal 2004-05 che l'Everton non sopravanzava i cugini. E poi anche la sfida di Wembley con il Chelsea deve aver lasciato un grande amaro in bocca ai fedelissimi della Kop, non solo per la sconfitta, ma per come è maturata – durante la prima ora di gioco i Reds sono stati a dir poco evanescenti. Sperando che Andy Carroll si riassesti sui livelli dei tempi di Newcastle e in attesa di capire se Kenny Dalglish sarà confermato o meno, i primi segnali lanciati dalla dirigenza (taglio all'organigramma societario) non lasciano presagire un mercato scoppiettante sul versante tinto di rosso della Merseyside.

La rivelazione dell'anno
Ci sarebbe l'imbarazzo della scelta, viste le belle e in buona parte inaspettate performance di Norwich City (data come probabile retrocessa, e invece salvatasi con largo anticipo) e Newcastle United (quinta a un soffio da un piazzamento nelle prime quattro). Noi però scegliamo la doppia impresa dello Swansea City, capace di evitare l'immediato ritorno in Championship giocando anche un calcio per gourmet del football. Il team di Brendan Rodgers, a ragione, è stato dipinto dalla maggior parte degli addetti ai lavori come una sorta di Barcellona in sedicesimo. Il gioco palla a terra è di sicuro uno dei marchi di fabbrica degli Swans – basti pensare che per andare al tiro le loro azioni hanno richiesto ben 62 passaggi, a fronte dei 45 di media della altre squadre della Premier. Le vittorie con Manchester City e Arsenal sono stati i momenti magici di una stagione d'oro, la prima nella massima divisione inglese dal 1983. Se i piedi buoni di Scott Sinclair, Joe Allen e Nathan Dyer dovessero restare al Liberty Stadium e il promettentissimo centrocampista offensivo islandese Gylfi Sygurdsson dovesse essere acquistato definitivamente dall'Hoffenheim, lo Swansea avrebbe assicurato un futuro roseo. Non guasta aggiungere che dopo qualche precedente turbolento, i gallesi hanno trovato un buon equilibrio anche dal punto di vista finanziario. Il 20 per cento delle azioni in mano ai tifosi da questo punto di vista molto probabilmente aiuta, e non poco.

Il giocatore emergente
Andy Carroll, chi era costui? A giudicare dalle prime 14 gare disputate con indosso la maglia numero nove dei Magpies, il degno successore di Alan Shearer è un dinoccolato giocatore originario della Senegal, che di nome fa Papiss Cissé. Prelevato dal Friburgo a gennaio senza spendere una fortuna (a posteriori è costato “solo” undici milioni di euro), il nostro eroe ha impiegato pochissimo per adattarsi ai ritmi della Premier, cominciando subito a segnare vagonate di reti, spesso e volentieri di ottima fattura. La sua perla – a nostro parere il goal dell'anno, almeno in Inghilterra – è costituita dalla prodezza balistica contro il Chelsea allo Stamford Bridge. Il povero Peter Cech sta ancora cercando di capire come Cissé sia stato in grado di scoccare un tiro così potente e preciso in diagonale da oltre 30 metri! Dettaglio che non guasta – anzi – il suo contributo è risultato decisivo per il ritorno in Europa del Newcastle dopo cinque stagioni di assenza. Adesso però si attendono conferme, che qualora dovessero arrivare manterrebbero il team bianconero nell'élite del calcio inglese. Un ottimo punto di partenza, oltre quanto mostrato negli ultimi cinque mesi, è la perfetta intesa con l'ex West Ham Demba Ba. Sarà perché i due – che sono coetanei, essendo nati entrambi nel 1985 a distanza di pochi giorni – giocano insieme anche in nazionale, ma in un modulo 4-4-2 formano la coppia ideale. Ba si è messo subito a disposizione del compagno di squadra, nonostante la cosa abbia comportato una sensibile riduzione della sua vena realizzativa. Per questo è stato pubblicamente elogiato dal suo allenatore Alan Pardew, che lo ha paragonato a … Madonna! “Pensate di avere già Madonna e di affiancarle Lady Gaga, come reagirebbe?” si è chiesto in maniera retorica il manager della Gazze. Ba non si è posto alcun problema, Cissé neppure.

venerdì 20 luglio 2012

Premier League on tour

Manchester United 23mila miglia, QPR 17.500, Everton 17mila, Liverpool 8.900. Tutte le squadre di Premier in totale accumulano 180mila miglia. Moltiplicate per 1,6 e avrete il conto dei chilometri che i club del massimo campionato inglese stanno percorrendo in questi giorni in tutto il Pianeta per disputare munifici match amichevoli. Anche le altre grandi come Arsenal, Manchester City e Chelsea hanno un chilometraggio da record, mentre solo alcune “piccole” come Wigan e Fulham non vanno oltre le 2mila miglia. Attenzione, ci sono però realtà meno strombazzate quali Stoke e Swansea che sono riuscite lo stesso ad assicurarsi un lucroso tour negli Usa. Qualcosa di impensabile solo pochi anni fa.

Chiaramente i club che fanno capo a una proprietà straniera sono tra i più “stimolati” a viaggiare. Non è un caso che il QPR sia arrivato fino in Malesia e Indonesia, visto che il nuovo padrone dei Super Hoops, Tony Fernandes, è malese. Ma ci sono esempi ancora più eclatanti, che chiamano in causa anche l’unica società della nostra Serie A non in mani italiane.

Per la gioia delle rispettive dirigenze, molto “vicine” da tutti i punti di vista, il Liverpool e la Roma infatti si incontreranno a breve al Fenway Park, il tempio del baseball bostoniano. Poi c’è chi, come il Sunderland, aveva programmato da mesi la trasferta in Corea del Sud, così da mostrare al pubblico locale un suo beniamino, Jin Dong-won. Peccato che il nostro eroe sia stato convocato dalla nazionale olimpica e di conseguenza le gare in terra patria si siano andate a far benedire.

In generale, i Red Devils confermano il loro status di compagine tra le prime 4-5 più popolari al mondo, mostrando un mucchio di riserve e qualche titolare (Wayne Rooney e altri suoi compagni si stanno ancora riprendendo dalle fatiche di Euro 2012) in tre continenti, dal Sud Africa alla Cina, per tornare in Europa con puntatine in Germania e Norvegia.

Il globetrotting è molto amato dai dirigenti, alquanto inviso agli allenatori. I primi ragionano in termini di introiti e “diffusione del brand”, i secondi hanno a cuore la preparazione atletica dei loro giocatori. “Noi abbiamo un approccio metodico e razionale per quel che riguarda la fase della pre-season, ma in parte lo dobbiamo sacrificare sull’altare delle tournée organizzate dalla società”. Le parole di Arsene Wenger non lasciano adito a dubbi: i manager farebbero volentieri a meno di una mezza dozzina di partite inutili e soprattutto di lunghi e stancanti spostamenti. Meglio sarebbe continuare i ritiri in qualche fresca località di montagna, piuttosto che fare il pieno di umidità e caldo in Asia.

Ma tant’è. Il marchio globale della Premier si alimenta anche di queste trasferte, di stadi pieni di cinesi piuttosto che malesi entusiasti e vestiti di tutto punto con sciarpa, maglia e cappellino del Chelsea o del Manchester City. Durante l’anno si accontentano di vedere le partite in Tv, d’estate possono però “toccare con mano” i loro beniamini. Qualche tempo fa i vertici della Premier avevano avuto la balzana idea di aggiungere una 39esima giornata al calendario del campionato, da tenersi rigorosamente all’estero. Il progetto fu bocciato, ma non è detto che possa rispuntare a breve.

Tanto quelli della Premier sono molto abituati a viaggiare…

mercoledì 18 luglio 2012

Scottish power

Scritto per Calcio 2000 di un paio di mesi fa.

Domanda oziosa e quanto mai sgradita ai supporter inglesi: i Tre Leoni avrebbero potuto raggiungere risultati migliori con un allenatore nato a nord del Vallo di Adriano in panchina? Se al posto dei vari Kevin Keegan, Glenn Hoddle e Steve McLaren ci fosse stato Alex Ferguson, tanto per fare un nome, si sarebbe rimediata qualche figuraccia in meno? Forse è inutile stare troppo a lambiccarsi il cervello su interrogativi del genere, siamo abbastanza certi che uno scozzese non sarà mai nominato manager della nazionale inglese. Vista la qualità dei tecnici nati dalle parti di Glasgow o Edimburgo da osservatori neutrali verrebbe da dire che è un vero peccato. Tanto per intendersi, nel recente passato due icone assolute come Matt Busby e Bill Shankly hanno dato inizio alla leggenda di due tra i club più famosi al mondo: Manchester United e Liverpool. E poi il primo allenatore britannico a sollevare una Coppa dei Campioni fu lo scozzese Jock Stein, che nel 1967 condusse i Celtic alla vittoria nei confronti dell'Inter di Mazzola e Facchetti. Per non parlare poi del baronetto che ha trasformato l'Old Trafford da oltre 25 anni a questa parte nel suo giardino di casa e a cui è già stata dedicata una delle tribune – per la statua pensiamo ci sia da aspettare ancora qualche anno, almeno finché non si ritirerà. Non sorprende allora che siano addirittura sette i tecnici scozzesi ad allenare un team di Premier. Gli inglesi, invece, possono contare solo quattro rappresentanti. Giusto per ribadire ulteriormente il concetto, non scordiamoci che l'ultimo connazionale di William Shakespeare che da manager ha condotto una squadra alla vittoria nella massima serie è stato Howard Wilkinson nel 1991-92. Allora la Premier non esisteva ancora, c'era la cara vecchia First Division.

Del più famoso dei “magnifici sette”, ovviamente Alex Ferguson, basti dire che forse quando leggerete questo articolo sarà diventato per la tredicesima volta campione d'Inghilterra con il suo Manchester United. Visto che prima o poi l'età della pensione arriverà anche per lui, a qualcuno dovrà pur toccare l'ingrato compito di essere il suo successore. Perché non David Moyes, un altro scozzese dotato di grande personalità e intelligenza tattica. Uno che in dieci anni al Goodison Park è riuscito a fare miracoli con i giocatori non proprio da urlo messigli a disposizione da una dirigenza sempre a corto di quattrini. Nonostante mille difficoltà e qualche stagione storta, vissuta flirtando con la zona retrocessione, Moyes ha ottenuto una finale di Fa Cup (persa di misura contro il Chelsea), una qualificazione ai preliminari di Champions League (poi però non passati e una serie di buoni piazzamenti a ridosso delle Big Four. Quando è servito non si è fatto scrupoli a pensare prima “al non prenderle”, ma nei limiti del possibile la qualità del suo gioco è sempre stata accettabile. Un po' come Sir Alex, anche il buon David ha una buona attitudine a valorizzare i giovani talenti, nonché a tirar fuori il meglio dal materiale umano a sua disposizione. Anche quest'anno i Toffees non si sono smentiti.

Oltre alla bella galoppata in Coppa d'Inghilterra, in Premier hanno figurato con una certa costanza nella parte sinistra della classifica, prendendosi le loro soddisfazioni contro le grandi. A cadere sotto i colpi di Cahill e compagni sono stati il Manchester City, Tottenham e Chelsea. I pochi denari ospiti della casse societarie sono stati investiti al meglio su un attaccante dal buon fiuto del goal come il croato Nikica Jelavac, prelevato per poco più di cinque milioni di euro dall'agonizzante Glasgow Rangers.

Uno dei grandi crucci per Moyes è quello di perdere con una certa costanza contro i cugini ricchi del Liverpool. Il 2011-12 in proposito non ha fatto eccezione. Anzi, con tre sconfitte su altrettanti match ha confermato un trend ben poco esaltante. Tornando alla sua possibile investitura come ipotetico erede di Ferguson, sarebbe però necessario un abile lavoro diplomatico per ricomporre il suo dissidio con Wayne Rooney. Il talento che proprio Moyes aveva lanciato in prima squadra alla tenera età di 17 anni, ha speso parole di fuoco contro il suo ex allenatore nella autobiografia pubblicata qualche anno fa, accusandolo di “averlo spinto a lasciare l'Everton”. Per la verità Rooney, dopo aver perso una causa per diffamazione, si è scusato pubblicamente e lo stesso Moyes di recente ha definito il suo ex pupillo “più maturo e saggio”. Però ci sorge il sospetto che, dopo la sua tempestosa relazione con Ferguson, Rooney non farebbe i salti di gioia a ritrovarsi di nuovo alle dipendenze di Moyes.

Passando al “resto” del gruppo il nome nuovo, l'emergente è senza dubbio Paul Lambert. Da giocatore ha assaporato l'immensa gioia della vittoria in Coppa dei Campioni, quando il suo Borussia Dortmund sconfisse un po' a sorpresa la Juventus nella finale del 1997. In veste di manager ha subito fatto parlare di sé in positivo. Con il piccolo Wycombe Wanderers raggiunse una semifinale di Coppa di Lega nonostante la squadra militasse in quarta serie, ma fu con il Colchester United che si fece notare per un esordio da favola nel derby contro il Norwich. Una schiacciante vittoria per 7-1, e per giunta al Carrow Road, che convinse la dirigenza dei Canaries a puntare forte sul promettente manager scozzese. Dopo un mese Lambert sedeva sulla panchina dei giallo-verdi, con i quali è riuscito nell'impresa della doppia promozione, dalla League One alla Premier. Per la cronaca, in quel fatidico primo anno il Norwich si prese la rivincita sul Colchester strapazzandolo con un sonoro 5-0. Il capolavoro, però, l'ex centrocampista di Borussia e Celtic lo ha compiuto con la salvezza conquistata in largo anticipo quest'anno. Si è affidato a giocatori pressoché tutti di origine britannica e con un'esperienza estremamente limitata ad alto livello – in parecchi prima di quest'anno non avevano mai calcato i campi di Premier – ma grazie al suo marchio di fabbrica, un'attitudine offensiva fatta di belle trame e ritmi vertiginosi, ha smentito tutti i pronostici che davano il Norwich per spacciato.

Nel tipo di tattica adottata e predisposizione a un gioco spettacolare Lambert assomiglia parecchio a Owen Coyle, che però dopo le belle imprese con il Burnley e gli ottimi primi tempi con il Bolton (con la sfortunata semifinale di FA Cup del 2011 a rappresentare la classica ciliegina sulla torta) quest'anno ha vissuto un'annata molto travagliata. Per carità, è stato in buona compagnia. Steve Kean (Blackburn Rovers) e Alex McLeish (Aston Villa) hanno collezionato un'infinità di problemi sia nel rettangolo di gioco che fuori. In comune hanno avuto i risultati mediocri e le contestazioni da parte dei propri supporter (il primo in quanto “raccomandato” dall'agente che ha facilitato l'arrivo in società dei nuovi proprietari, il secondo per aver allenato gli acerrimi rivali del Birmingham City).

In campionato, però, ha deluso anche il Liverpool di King Kenny Dalglish, poi abbondantemente rifattosi nelle coppe. L'ex numero sette dei Reds ha riportato un trofeo ad Anfield Road dopo sei anni di digiuno, ma soprattutto dal suo arrivo nel gennaio del 2011 ha dato nuovo entusiasmo a una tifoseria sull'orlo di una crisi di nervi. Il sessantunenne nativo di Glasgow è stato l'ultimo a vincere un titolo di campione d'Inghilterra con una piccola – era il manager del Blackburn nella stagione d'oro dei Rovers nel 1994-95 – ma nel 2000 si era poi ritirato dopo le pessime parentesi con il Newcastle e il Celtic. Chi lo riteneva un'allenatore dalla mentalità e dal gioco ormai obsoleti è stato in parte smentito dal suo ritorno alla guida del Liverpool – già condotto dalla panchina fra il 1985 e il 1991. La storia di Dalglish da manager dei Reds in un certo qual modo è stata determinata dalle grandi tragedie che hanno segnato il percorso del club negli anni Novanta. Dopo l'Heysel successe a Joe Fagan, mentre nel 1989 visse in prima persona il dramma dell'Hillsborough. Un evento troppo difficile da metabolizzare anche da un fiero scozzese come lui. Quando lasciò il Liverpool per la prima volta, afflitto da problemi di salute, aveva ancora negli occhi il magma mortale di corpi che era diventata la Leppings Lane quel maledetto 15 aprile del 1989. Ora si vocifera che a fine stagione potrebbe passare la mano un'altra volta, visto che la proprietà americana starebbe cercando un nuovo tecnico. E così la Kop si troverebbe di nuovo a dover dire addio a una leggenda come King Kenny. Un simbolo come ce ne sono pochi di questi tempi.

sabato 14 luglio 2012

Dall'Old Trafford a Wall Street, passando per un mare di debiti

Al fine di racimolare “qualche” milione di sterline da destinare a pagare i debiti contratti per acquisire il Manchester United nel 2005 (che ora ammontano a circa 500 milioni di euro), i Glazer hanno deciso di inondare di azioni del club la New York Stock Exchange. L'intenzione è proprio quella di estinguere il debito che pesa come un macigno sui Red Devils, che prima dell’avvento della famiglia di imprenditori a stelle e strisce erano una delle società calcistiche con i conti più in ordine – e in attivo – di tutto il Pianeta.

Dopo il tentativo fatto lo scorso anno con la Borsa di Singapore, i Glazer questa volta “giocano in casa”. Ma al di là delle perplessità sulle motivazioni – molti tifosi dello United contestano da sempre alla proprietà il peccato originale dell’enorme debito accumulato – qualche dubbio lo lasciano anche le modalità di tutta l’operazione. La società a cui faranno capo le azioni dei Red Devils sarà registrata nelle Cayman Islands (noto paradiso fiscale) e i diritti degli azionisti saranno ridotti all’osso.

Non solo, come ha fatto notare l’esperto di questioni finanziarie legate al mondo del calcio David Conn, giornalista del Guardian, le informazioni fornite alle New York Stock Exchange sullo stato di salute del club non sarebbero nemmeno troppo aggiornate. Mancherebbero i dati sugli ultimi mesi, che certo non devono essere troppo brillanti, se è vero che la prematura eliminazione in Champions League ha ridotto di un bel po’ gli introiti previsti. Dopo quest’ennesimo azzardo dubitiamo che i Glazer abbiano conquistato nuovi simpatizzanti dalle parti dell’Old Trafford.

venerdì 13 luglio 2012

Giustizia è (forse) fatta, i Rangers ripartono dalla quarta divisione!

La prossima stagione i Rangers giocheranno in quarta serie, contro squadre del calibro di Elgin City e Berwick Rangers. A meno di una clamorosa e impopolare decisione della Scottish Football Association che smentisca la votazione presa oggi dai 30 presidenti della Lega e permetta ai Gers di ripartire dalla seconda divisione.

Per la cronaca, dei succitati 30 presidenti, sono stati in ben 25 a "condannare" la compagine 54 volte campione di Scozia...

giovedì 12 luglio 2012

Il museo del football

Quattro piani infarciti di memorabilia calcistici da far impazzire di invidia tutti i collezionisti del Pianeta. Il nuovo museo del football, inaugurato a inizio luglio a Manchester, in una struttura molto avveniristica a pochi passi dal centro, può contare su oltre 2.500 “pezzi” in esposizione e un archivio storico di una completezza impressionante. C’è un po’ di tutto: dalla maglia che Diego Armando Maradona vestì nel famoso match contro l’Inghilterra a Messico 86 – quello della “mano di Dio” e del goal più bello della storia dei mondiali – ai palloni utilizzati per finali di FA Cup degli anni Trenta o per l’atto conclusivo della Coppa del mondo del 1966 tra Inghilterra e Germania Ovest.

E poi programmi rari, fotografie, quadri a tema calcistico e tanto altro ancora. In realtà il museo già esisteva. Prima, come ho potuto constatare di persona visitandolo, si trovava nella vicina Preston, attaccato allo stadio del North End The Deepdale. Al costo di una decina di milioni di euro si è però deciso di spostarlo nella metropoli del Lancashire. Il trasloco è stato motivato dall’esigenza di impiegare una struttura più grande, così da poter aggiungere nuovi cimeli e incrementare le presenze (l’obiettivo è triplicare il numero di visitatori, attestatosi a poco più di 100mila lo scorso anno). Per saperne di più e dare un’occhiata alle immagini di qualche memorabilia basta andare sul sito nationalfootballmuseum.com. Ultimo dettaglio non esattamente trascurabile: l’ingresso è gratuito.

mercoledì 4 luglio 2012

Rangers esclusi dalla Premier League scozzese

Dopo 122 anni la massima divisione scozzese è destinata a rimanere orfana dell'Old Firm. Il derby di Glasgow, lo scontro atavico tra protestanti e cattolici, filo-irlandesi e lealisti, nel 2012-13 non si giocherà. I Rangers, infatti, sono stati estromessi dalla Scottish Premier League. I presidenti degli altri club non hanno accettato che la nuova società, subentrata alla precedente costretta a dichiarare fallimento, rilevasse senza colpo ferire anche i diritti sportivi. Entro una settimana si capirà se i Light Blues ripartiranno dalla First Division (l'equivalente della nostra Serie B), oppure dal quarto e ultimo gradino dei campionati professionistici a nord del Vallo di Adriano. Le dirigenze di tante realtà della First Division hanno già storto il naso, sebbene gli spin doctor del mondo del pallone scozzese abbiano ipotizzato che i Rangers in quarta serie costerebbero all'intero movimento circa 16 milioni di sterline.

Insomma, non bastassero le randellate prese a ogni piè sospinto dalla nazionale, ora ci si mette pure la compagine più titolata del Paese (54 campionati e 33 coppe nazionali) a inguaiare il già agonizzante fitba.

Avviso ai naviganti, i Gers se la sono cercata, eccome. Le due precedenti proprietà hanno fatto più danni della grandine. David Murray era solito pagare parte dei salari dei giocatori tramite trust anonimi registrati nelle isolette della Manica – in pratica eludeva la tasse grazie a dei paradisi fiscali. Peccato che abbia lo stesso accumulato un mucchio di debiti di ogni genere, sia con soggetti privati che con lo Stato. Poi ha pensato bene di cedere la società a tale Craig Whyte, uno dei tanti avventurieri che solcano i mari del calcio moderno. Per comprarsi le quote dei Rangers, Whyte ha usato lo stesso trucchetto adottato dai padroni americani del Manchester United: accollare la spesa alla società appena acquistata. Per far ciò ha “impegnato” gli introiti derivanti dagli abbonamenti di quattro stagioni, facendosi anticipare il denaro dalla Ticketus, una compagnia specializzata in questo tipo di operazioni.

E pensare che prima dell'esplosione del bubbone il blogger che aveva iniziato a spifferare qualche dettaglio sui problemi dei Rangers era stato minacciato di morte...

Impossibile che la squadra espressione della metà ricca, borghese e protestante di Glasgow potesse navigare in brutte acque. Certo, come no, se la ridono nemmeno troppo sotto i baffi i supporter dei Celtic. Per anni sbeffeggiati come i paria della città più popolosa della Scozia, ora si stanno prendendo una bella rivincita.

Proprio loro che furono fondati nel lontano 1888 da fratello Walfrid, un prete cattolico che con i ricavi della neonata squadra di calcio intendeva finanziare la Poor Children's Dinner Table, una delle istituzioni caritatevoli che per decenni aiutò a sopravvivere i poveri figli della sfortunata comunità cattolica.

Charlese Green, l'amministratore delegato della newco, non aveva certo tali intenti filantropici, quando è entrato a far parte della cordata composta anche da uomini d'affari asiatici che ora ha rilevato i Rangers. Green ha confermato che ovunque lo spediranno, il team bianco-blu scenderà in campo. Chissà con quali giocatori, visto che solo 13 si sono presentati al ritiro. Gli altri erano impegnati a figurare come attori principali del film dell'horror che sta scombussolando una parte di Glasgow e nel complesso il calcio scozzese: “2012, fuga da Ibrox Park”.

Scritto per slow.foot.eu

martedì 3 luglio 2012

London Calling su Paese Sera

A seguire il testo dell'intervista fatta a Max Troiani e me da Roberto D'Amico alla presentazione del libro tenutasi la scorsa settimana da The Dressers a Roma.

A tu per tu con Max Troiani e Luca Manes, autori del libro "London Calling. La storia dell'Arsenal e di un secolo e mezzo di football all'ombra del Big Ben". Li abbiamo incontrati nel corso della presentazione del loro volume nei locali di Dressers e ci hanno raccontato episodi, aneddoti e storie che hanno reso celebri i Gunners in tutto il Mondo ed hanno spinto i due autori a scriverci un libro. Manes e Troiani si dicono inoltre convinti sull'impossibilità di paragonare il loro calcio con il nostro: "Le squadre in Inghilterra fanno il possibile per mettere il risalto la propria storia, i propri successi, i propri giocatori, tutto per allargare la grande famiglia di tifosi che hanno intorno. Qui da noi il percorso è inverso: si fa di tutto per allontanare i tifosi dallo stadio e dal calcio"

In questi giorni di calcio internazionale, che hanno tenuto migliaia di italiani incollati davanti la televisione ad osservare le prodezze della nazionale azzurra, non c’erano solo gli Europei di calcio ad attirare l’attenzione dei veri intenditori di Football, quelli autentici.

I due autori: Luca Manes e Max Troiani A poco più di sei mesi di distanza dall’anteprima assoluta nella Capitale, avvenuta lo scorso dicembre nella suggestiva e simbolica sede della Fondazione Gabriele Sandri, Max Troiani e Luca Manes hanno incontrato nuovamente i loro lettori per presentare la loro ultima fatica: “London Calling - La storia dell'Arsenal e di un secolo e mezzo di football all'ombra del Big Ben”.

Abbiamo incontrato i due autori proprio nei locali di Dressers in via Alba 46, dove pochi minuti prima della semifinale Italia-Germania, è avvenuta la presentazione. Ecco le impressioni, i commenti le idee di Max e Luca non solo sull’Arsenal ma sul calcio inglese a 360°: dal tifo agli stadi, dalle repressioni al modello italiano.

Come è nata l’idea di scrivere questo libro e perché?

Max: Io era da tempo che avevo in mente di mettermi a lavorare su questo progetto. Era il mio sogno scrivere la storia dell’Arsenal, approfondendo aspetti, caratteristiche e raccontando aneddoti che ne hanno caratterizzato l’evolversi. Ho avuto la fortuna grazie a Luca di scriverlo.

Luca: L’Arsenal è stata forse la scusa per scrivere il libro. L’idea è nata per parlare un po’ di Londra, di come è inteso e nato li calcio. Sono sicuramente aspetti più complessi di quanto si immagina comunemente: il calcio in Inghilterra si sviluppa infatti soprattutto nel nord del paese, nei centri industriali. Si assiste quindi ad una grande attività amatoriale, tant’è che molte squadre hanno faticato molto ad arrivare ad ottenere gli stessi successi dell’Arsenal. Nel nostro libro raccontiamo storie, incroci inverosimili, fatti mai pensabili per il nostro modo di concepire il calcio e di vedere quello inglese: ad esempio di come il Presidente del Fuhlam sia poi diventato il presidente dell’Arsenal e di come abbia trasferito la squadra dal sud al nord della città. Un po’ come è successo pochi anni fa con Wimbledon che è stata spostata altrove, oppure al Millwall che si trovava in una zona difficile dell’est londinese e si è dovuto trasferire a sud, oppure dei vari tentativi di fusione tra Fulham e QPR o QPR e Brentford. Insomma raccontare il calcio inglese anche attraverso storie non propriamente romantiche che danno però l’idea di come, almeno secondo il mio punto di vista, il calcio di una volta sia migliore del corporate football attuale.

Luca, hai scritto praticamente tutti i tuoi libri sul calcio anglosassone, avvalendoti in due casi dell’aiuto di Max. E’ una tua passione particolare oppure stai percorrendo una strada poco battuta da altri autori?

Questa è una passione che coltivo da quando ho 8-9 anni. Un po’ con il Subbuteo, un po’ con le poche immagini che arrivavano dall’Inghilterra mi sono avvicinato a questo mondo. Non a caso fin da quando sono ragazzino tifo per il Manchester United, sebbene poi tifi anche una squadra italiana. Il discorso è che mi è sempre piaciuto raccontare storie che mi hanno appassionato e conosco bene. Ad esempio, raccontando la “Leggenda dei Busby Babes” ho parlato dell’inizio del mio amore per lo United. Una squadra che all’epoca non vinceva tanto quanto oggi, anzi era schiacciata dalla rivalità con il Liverpool.

Quali sono le difficoltà maggiori che avete incontrato nello scrivere questo o, se preferite, quant’è facile parlare di calcio inglese in Italia?

Luca: In realtà il problema è costituito dal canale della distribuzione. Il tema è chiaramente per amatori, per un pubblico di nicchia. Non è quindi facile diffondere in maniera appropriata un prodotto di questo tipo. Dal punto di vista pratico invece, nella raccolta di materiale e fonti, non abbiamo avuto particolari difficoltà: in Inghilterra, tra internet, libri, archivi e contatti diretti, è molto semplice ricostruire con precisione una storia. Personalmente credo che sia però fondamentale andare sul luogo, intervistare persone, parlarne in giro. Si riesce a dare sicuramente più incisività al racconto.

Calcio inglese e calcio italiano: quali sono le differenze principali?

Max: Io non seguo più il calcio italiano quindi sono forse di parte. Le differenze sono comunque abissali e vanno dalle strutture, dagli stadi, fino ad arrivare all’organizzazione e ai club. Le squadre in Inghilterra fanno il possibile per mettere il risalto la propria storia, i propri successi, i propri giocatori, tutto per allargare la grande famiglia di tifosi che hanno intorno. Qui da noi il percorso è inverso: si fa di tutto per allontanare i tifosi dallo stadio e dal calcio. Ricordo l’episodio che mi ha fatto definitivamente ripudiare il calcio italiano: era il ritorno di Agostino Di Bartolomei a Roma con la maglia del Milan. La Curva Sud lo fischiò per tutta la partita coprendolo di insulti. Era ancora il mio capitano, fu un atteggiamento che mi fece veramente male.

Parliamo a questo punto di stadi: le restrizioni effettuate sul tifo in Inghilterra potrebbero essere accettate nel calcio italiano? Potrebbero essere un passo in avanti o uno indietro?

Luca: Francamente in Inghilterra hanno esagerato. Una parte dell’atmosfera che c’era prima l’hanno praticamente uccisa. Una zona dello stadio dedicata ai tifosi più “appassionati” è per me fondamentale. Eliminarla è stato il peggiore degli sbagli. Inoltre la repressione che hanno messo in atto è stata troppo spesso eccessiva nelle misure: questo ha fatto si che in molte partite, soprattutto se non di cartello, l’atmosfera del vero tifo manchi del tutto. Negli ultimi tempi ho notato però che le tifoserie stanno riconsiderando la situazione rispetto al recente passato. Sempre più “curve” tornano ad ospitare tifosi che assistono alla partita in piedi. Questo dimostra che gli inglesi hanno capito che bisogna tornare, in forma sana, a quelle che erano le vecchie “terrace”, cariche di atmosfera, coinvolgimento, calore. Chiaro che nel mondo del Corporate Football, che vede il tifoso come “cliente”, viene a mancare l’essenza stessa del supporter. Per risolvere il problema Hooligans hanno sicuramente esagerato, adesso vedremo cosa accadrà, magari si troverà una situazione di compromesso.

Progetti per il futuro?

Max: da parte mia no. Al momento mi voglio occupare della promozione di questo libro. Poi vediamo cosa succederà in futuro.

Luca: Io ho una mezza idea che mi passa per la mente e che ovviamente riguarda il calcio inglese. Mi piacerebbe raccontare il derby londinese tra Millwall e West Ham. Vediamo per il futuro, anche in questo caso si può raccontare di una Londra meno conosciuta, meno patinata, più vera.

di Roberto D'Amico

lunedì 2 luglio 2012

Team GB

Ecco i giocatori convocati da Stuart Pearce per Londra 2012:

Jack Butland (Birmingham), Jason Steele (Middlesbrough); Ryan Bertrand (Chelsea), Steven Caulker (Tottenham), Craig Dawson (West Brom), Micah Richards (Manchester City), Neil Taylor (Swansea), James Tomkins (West Ham); Joe Allen (Swansea), Tom Cleverley (Manchester United), Jack Cork (Southampton), Ryan Giggs (Manchester United), Aaron Ramsey (Arsenal), Danny Rose (Tottenham), Scott Sinclair (Swansea); Craig Bellamy (Liverpool), Marvin Sordell (Bolton), Daniel Sturridge (Chelsea).

Buona squadra, secondo me da medaglia di bronzo. A meno che il mago gallese non si inventi qualche "colpo a sorpresa"...

Il Sunderland e il greenwashing

Per una volta il mio lavoro e il mio hobby si incrociano! Questa l'ho scritta per uno dei siti per i quali scrivo, per la precisione staccalaspina.org

Dietro l’organizzazione no profit Invest in Africa, nuovo sponsor della compagine della Premier League del Sunderland, si cela la discussa multinazionale petrolifera con sede a Londra Tullow Oil. A denunciarlo l’Ong inglese Platform, la quale reputa che la Tullow Oil stia così cercando una sorta di legittimazione agli occhi dell’opinione pubblica britannica.

Un’operazione che in parte era già riuscita, se è vero che il vice-presidente del Sunderland, l’ex ministro degli Esteri David Miliband, aveva definito il contratto della durata di due anni con la Invest in Africa “una pietra miliare nella storia della Premier League”.

La denuncia di Platform, cui hanno fatto eco altre realtà britanniche ed africane, ha avuto vasto risalto sui media britannici. In particolare si evidenzia come la Tullow Oil sia ben poco trasparente – non pubblica nessuno dei suoi contratti con i vari governi africani con cui collabora – e in particolare in Ghana, dove gestisce un numero molto cospicuo di pozzi petroliferi, le sue pratiche a dir poco controverse abbiano danneggiato le imprese e le popolazioni locali. Il fatto che la oil corporation non sia riuscita a limitare gli impatti ambientali ha conseguenze soprattutto sulle comunità di pescatori, troppo spesso costrette a operare in bacini d’acqua inquinati.

Intanto a Sunderland qualche tifoso inizia a storcere il naso. Martin McFadden, direttore di una delle fanzine sulla squadra del nord-est dell’Inghilterra ha affermato che “il football non può sempre e solo essere una questione di soldi”.