lunedì 23 marzo 2009

Giochi completamente riaperti

Come è strano il calcio. Mentre lo “Special One” ha fallito miseramente nel tentativo di fermare la corsa del Manchester United in Europa, con il suo piccolo Fulham Roy Hodgson, ex tecnico interista mai amato dalla piazza nerazzurra, ha compiuto l’impresa di sconfiggere i Diavoli Rossi e riaprire il campionato. Il tutto dopo aver rimediato un sonante 0-4 casalingo in FA Cup poco meno di un mese fa.

I Cottagers non battevano lo United al Craven Cottage dal 1964 e gli stessi campioni d’Inghilterra non incappavano in due sconfitte consecutive in Premier dal lontano 2005. Roba da libri di storia, così come il primo tempo del Fulham dello scorso sabato. Un dominio totale, tanto che l’1-0 con cui si è chiusa la frazione di gioco stava fin troppo stretto a Andy Johnson e compagni. Red Devils in crisi, nonostante la mezz’ora di forcing nella seconda parte di gara? Sicuramente in difficoltà, con la difesa da registrare e alcune stelle sull’orlo di una crisi di nervi – per informazioni rivolgersi a Cristiano Ronaldo e a Wayne Rooney, la cui espulsione è apparsa però fin troppo severa.

Insomma, dalla prospettiva di un terzo titolo consecutivo ormai quasi in cassaforte, si è passati a un Premier ancora tutta da giocare e alla riproposizione dello storico duello tra Manchester United e Liverpool.

Proprio i Reds, reduci dalla scorpacciata di gol contro Real Madrid e lo stesso United, ad Anfield hanno schiantato l’Aston Villa. Mattatore di giornata il solito Gerrard, autore di una tripletta su calci da fermo. Liverpool in grande condizione atletica e psicologicamente avvantaggiati nei confronti dei rivali, ai quali hanno rosicchiato sei punti in appena due giornate. È pur vero che, a fronte della sola lunghezza di divario, il team dell’Old Trafford deve recuperare il non impossibile incontro casalingo con il Portsmouth.

Gli ultimi avversari del Liverpool, invece, stanno attraversando un periodo di forma pessimo, che li ha portati a racimolare un punto in cinque partite e a scivolare al quinto posto in classifica. La quarta posizione, infatti, è sempre più appannaggio dell’Arsenal, bravo e fortunato a uscire dal St James’ Park di Newcastle con i tre punti. Sullo 0-0 i Magpies hanno sprecato un rigore con Martins, la cui successiva marcatura non è servita a rispondere alle prodezze dei ragazzi di Wenger, orfano sino al termine della stagione di Theo Walcott.

Nelle posizioni di vertice della classifica getta alle ortiche un’occasione di platino il Chelsea, che perde il derby con il Tottenham al White Hart Lane. La prima sconfitta dell’era Hiddink – e la seconda in ben 37 scontri diretti in campionato – pregiudica e non poco le chance di rimonta dei Blues. Gli Spurs hanno meritato la vittoria, siglata da una rete di Luka Modric. Il croato ha finalmente trovato il passo giusto e non è un caso che la sua rinascita è coincisa con la ripresa del Tottenham, ora in corsa per una clamorosa qualificazione in Europa.

Grande bagarre per l’ultimo dei tre posti per la prossima Coppa Uefa – pardon, Europa League. Dando per già qualificate l’Aston Villa e l’Everton – che però sabato si è fatto rimontare dall’1-0 al 1-2 a Portsmouth – per il terzo “spazio” si daranno battaglia fino alla fine Wigan, West Ham, Fulham, Manchester City e Tottenham, racchiuse nello spazio di soli tre punti. Nello scorso week end hanno vinto tutte, tranne gli Irons che comunque sono usciti imbattuti sul difficile campo del Blackburn, sempre più vicino alla salvezza.

Nella zona calda passi in avanti di Stoke (1-0 in extremis ai danni del Middlesbrough) e Portsmouth, mentre i mancati successi dello stesso Boro e del WBA (solo 1-1 in casa con il Bolton) potrebbero rivelarsi una condanna per le due compagini, rispettivamente a meno quattro e meno sette dalla permanenza in Premier. Se il campionato finisse oggi la terza squadra a precipitare in Championship sarebbe addirittura in Newcastle, che dopo la pausa per le nazionali se la dovrà vedere con il Chelsea. Tempi duri per la Toon Army…

Uscito oggi su Goal.com

venerdì 20 marzo 2009

Fever Pitch numero uno

E finalmente rieccoci qui, sulle colonne di Fever Pitch, numero uno. Ce l’abbiamo fatta, ce l’abbiamo voluta fare; appena diffuso il numero zero ci siamo rimessi al lavoro per la prima uscita ‘ufficiale’ del magazine, il suo esordio ’su carta’ e sul mercato. Una bella sfida, e dunque se possibile ci siamo dedicati ancor più, con l’obiettivo di migliorare il progetto e la sua realizzazione. In questo ci hanno aiutato i tantissimi consigli, suggerimenti, proposte arrivate da Voi lettori, da subito entusiasti della proposta editoriale di Fever Pitch. Idee ne avevamo tante già in partenza, ma lavorandoci ne abbiamo raccolte tante altre, al punto che lo spazio del numero 1 è andato ‘esaurito’ rapidamente, ‘costringendoci’ a rimandare ai prossimi numeri argomenti ‘cool’ e affascinanti. In questo numero uno, intanto, divertimento e varietà sono assicurati. Nello spirito di FP ci siamo concessi un paio di puntate fuori dal rettangolo verde, con la storia della più antica barberia del Regno e quella del coro da stadio più famoso del mondo (indovinate qual è…). E poi ancora spazio alla recensione di due libri italiani dedicati al calcio britannico, e ovviamente tanto calcio, di oggi e di ieri. L’attualità è davvero ‘di giornata’, dato che ripassiamo insieme l’avventura della Coppa di Lega appena conclusa. Quanto al ‘vintage’, non c’è che l’imbarazzo della scelta: dal ghiotto Accadde in England 1970 agli imperdibili racconti di Lord Sinclair, dalla storia della Mitre al duello Inghilterra– Ungheria a metà degli anni ‘50. C’è ancora altro, ma lo scoprirete sfogliando le pagine del numero uno. Una sorpresa invece la anticipiamo subito, ed è il nuovissimo sito http://www.feverpitch.it/ , online in questi giorni e interamente dedicato a presentare, raccontare, diffondere la nostra iniziativa. Venite a trovarci anche online, Fever Pitch non si ferma mai!!!
LA REDAZIONE DI FEVER PITCH

giovedì 19 marzo 2009

Il mito Bill Shankly

Bill Shankly è stato senza ombra di dubbio uno dei più grandi allenatori della storia del football britannico. Nella Merseyside, sponda Liverpool FC, è un simbolo, un'icona immortale, una divinità oggetto di una sorta di culto della personalità. Shankly è il Liverpool, o meglio è colui che ha fatto sì che una squadra e una società allo sbando spiccassero il volo per divenire uno dei club più conosciuti e di successo al mondo.

Insieme ai suoi grandi amici Matt Busby (Manchester United) e Jock Stein (Celtic), il buon Bill ha rappresentato l'avanguardia di una meravigliosa generazione di tecnici scozzesi. Come Busby e Stein, Shankly era figlio della working class. Il suo paesino di origine, Glenbuck, era terra di minatori, mestiere che lui e i suoi quattro fratelli si risparmiarono grazie al football. Tutti e cinque intrapresero la carriera professionistica. Bill eccelse anche sul campo, tanto che la sua ex squadra del Preston North End gli ha dedicato una tribuna dello stadio appena rimodernato. Il faccione sorridente di Shankly, infatti, campeggia nell'omonima End.

All'Anfield Road, invece, c'è una sua statua davanti alla mitica Kop e uno degli ingressi dell'impianto è stato battezzato Shankly's Gate. Ovviamente il più importante, tanto che il celebre “cancello” da un po' di anni è stato aggiunto al simbolo del Liverpool.

Shankly divenne famoso anche per le sue battute taglienti e i suoi spassosi aforismi. Quando fu nominato manager dei Reds affermò che avrebbe plasmato “una squadra invincibile, così dovranno mandare un team da Marte per batterci”. Peccato che all'epoca, era il 1959, il Liverpool fosse tutt'altro che invincibile. Nel 1954 era retrocesso in Second Division dopo una stagione disastrosa – “memorabile” un 1 a 9 rimediato contro il Birmingham – e durante cinque stagioni passate nel campionato cadetto le sue prestazioni avevano lasciato molto a desiderare, tanto per usare un eufemismo.

L'esordio di Shankly non fu dei migliori: un rotondo 0 a 4 interno contro il Cardiff City. Il tecnico scozzese ci mise tre anni per riportare i Reds in prima divisione, ma solo una stagione per vincere un titolo atteso da quasi 20 anni. La sua prima grande squadra aveva raggiunto i vertici del calcio inglese grazie a un gioco “palla a terra” e all'oggi tanto decantato gruppo. Shankly è stato uno dei primi a curare la componente psicologica dei giocatori, sapendo gestire alla perfezione i suoi ragazzi anche fuori del campo di allenamento di Melmwood. La base del suo ragionamento era che quando uno degli undici mandati in campo si ritrovasse in difficoltà, ai suoi compagni spettasse di aiutarlo, di sostenerlo proprio come avrebbero fatto tra loro i minatori di Glenbuck.

Un altro dei suoi grandi meriti fu quello di contornarsi di assistenti di grande valore: Bob Paisley e Joe Fagan, ovvero i suoi successori sulla panchina dei Reds e coloro che raccolsero i frutti di quanto da lui seminato.

La messe di vittorie della metà degli anni Sessanta continuò con un altro campionato nel 1966 e una
FA Cup (la prima nella storia del Liverpool) nel 1965.

Allora la Kop, la gradinata più famosa del pianeta, poteva ospitare ben 28mila tifosi, tutti in piedi e stipati in pochi metri quadrati di spazio. Tra quei 28mila e Shankly si instaurò subito un rapporto di amore incondizionato. Narra Peter Thompson, uno dei fedelissimi dello scozzese, che un sabato il manager si presentò negli spogliatoi solo un quarto d'ora prima del fischio d'inizio e con i vestiti in disordine. Si era fatto un giro nella Kop, dove i tifosi gli avevano dimostrato in maniera fin troppo calorosa il loro affetto. I racconti sui biglietti regalati ai fan sprovvisti si sprecano, così come la battute salaci sui cugini dell'Everton. “a Liverpool ci sono due squadre forti:il Liverpool e il Liverpool riserve” è una delle più celebri. Se la fin troppo abusata “il calcio non è una questione di vita o di morte, ma molto di più” è invece presa in prestito dal mondo del football americano, c'è un’altra frase che spiega alla perfezione come Shankly vivesse in maniera totale il calcio. Ai giornalisti che gli chiedevano se fosse vero che aveva portato la moglie a vedere una partita del Rochdale (squadra del Lancashire che militava nelle divisioni minori) come regalo di anniversario, il grande Bill rispose: “No, era per il suo compleanno. E poi non mi sarei mai sposato durante la stagione calcistica. Ad ogni modo era la squadra riserve del Rochdale…”.

L'empatia con il popolo biancorosso continuò anche nei sette anni in cui il Liverpool rimase a bocca asciutta, prima di centrare una doppietta campionato-Coppa Uefa nel 1973 e una FA Cup nel 1974. Nella finale di Wembley contro il Newcastle a indossare la casacca numero sette era niente meno che il “re”, King Kevin Keegan. Proprio dopo quell’atto conclusivo della coppa d'Inghilterra, dominato ben oltre il 3-0 finale, Shankly annunciò a sorpresa le sue dimissioni. Alla base della sua decisione c'era un eccessivo accumulo di stress e la voglia di passare più tempo in famiglia.

In realtà sembrò pentirsi subito, tanto da continuare a frequentare quotidianamente il campo dall'allenamento di Melmwood, tra l'imbarazzo del nuovo allenatore Bob Paisley e della società. La dirigenza decise allora di vietargli l'ingresso, scatenando le ire sue e dei tifosi.

Il rapporto con il Liverpool non si sarebbe mai più ricomposto. Sette anni dopo il suo addio al calcio, morì a causa di una crisi cardiaca. Una perdita di portata incalcolabile per la Liverpool di fede biancorossa, ma molto sentita anche nel resto del paese, tanto che il congresso del partito laburista gli rese omaggio tenendo un minuto di silenzio. Per i kopites, i frequentatori della end del Liverpool, lo scozzese rimane un punto di riferimento, una guida. “Shankly lives forever”, vive per sempre, scrissero su uno striscione apparso nella Kop. Fosse ancora tra noi, chissà quante battute caustiche ci avrebbe regalato in questi anni di corporate football.

Articolo scritto per la mia rubrica British Corner su Goal.com

lunedì 16 marzo 2009

United, giovani leoni e vecchietti terribili

Negli anni novanta le giovani promesse del vivaio del Manchester United si chiamavano Ryan Giggs, Paul Scholes, David Beckham, Gary e Phil Neville. Oggi i leoni rampanti di Sir Alex Ferguson rispondono al nome di Jonny Evans, Darron Gibson e Danny Welbeck. Senza dimenticare Ben Foster, i gemelli Da Silva e Rodrigo Possebon, arrivati alla corte del mago scozzese ancora in tenerissima età. Insomma, la squadra campione d'Europa non solo è abile a far fruttare i suoi soldi investendo su stelle già affermate - ma anche Wayne Rooney, Cristiano Ronaldo e Rio Ferdinand sono giunti all'Old Trafford a inizio carriera - ma punta anche molto sui giovanissimi. L'ha sempre fatto, fin dai lontani anni Cinquanta, quando il mitico allenatore scozzese Matt Busby vinceva campionati in serie schierando un manipolo di ragazzini, i Busby Babes appunto, che solo la tragedia aerea di Monaco di Baviera del febbraio 1958 seppe sconfiggere. Non a caso nel 1963 il predecessore di Ferguson fece esordire poco più che diciassettenne anche un certo George Best.

La nuova leva di fenomeni promette bene. La Coppa di Lega vinta dieci giorni fa ai rigori sul Tottenham li ha visti grandi protagonisti, sia nell'atto finale che nei turni preliminari. Evans è ormai una garanzia del reparto difensivo, tanto da sostituire in maniera impeccabile Nemanja Vidic nel match di andata contro l'Inter a San Siro. Gibson è un nordirlandese di Derry, che però, scatenando un putiferio, ha scelto di giocare per l'Eire. Dal momento che il suo raggio d'azione è a centrocampo, i paragoni con l'ex Red Devil Roy Keane si sono già sprecati. Darron è sulla buona strada, ma per arrivare ai livelli dell'ex capitano dello United deve lavorare ancora parecchio. Diciottenne di genitori ghanesi, ma nato in un sobborgo di Manchester, Welbeck sembra uno dei classici «predestinati». In gol all'esordio in Premier e in FA Cup, ha uno scatto e delle doti tecniche che potrebbero condurlo molto lontano, sebbene il suo talento sia ancora un po' da sgrezzare. Altra punta da tenere d'occhio è pure Fraizer Campbell, attualmente in prestito al Tottenham.

Anche se non è un prodotto delle giovanili e ha «già» 25 anni, Sir Alex crede ciecamente nel portiere Ben Foster. Uno che è destinato a raccogliere il testimone di Edwin Van De Sar e che potrebbe risolvere l'annoso problema dell'estremo difensore a Fabio Capello e alla sua nazionale dei Tre Leoni. Nella finale della Coppa di Lega ha sfoderato parate sensazionali, sia nei tempi regolamentari che ai rigori. Peccato che si faccia male un po' troppo spesso, a volte anche in circostanze «particolari» - una volta è stato fuori due mesi per un infortunio capitatogli mentre giocava a tennis con il fratello.

In attesa di nuove scoperte, Ferguson si gode i suoi talenti e la sua politica vincente, oltre Manica tanto cara anche a grandi tecnici come Arsene Wenger e Martin O'Neill. E pensare che nell'ormai lontano 1994, quando nel primo turno di Coppa di Lega contro il Port Vale schierò una formazione di «bimbetti» che si affacciavano in prima squadra, un deputato locale lo riprese pubblicamente alla Camera dei Comuni per lo «scarso rispetto» mostrato dallo United nei confronti della competizione e del pubblico. In campo, al posto dei campioni più affermati, ci andarono i giovanissimi David Beckham, Paul Scholes, Nicky Butt, Gary Neville e Ryan Giggs.

Già, Giggs. In realtà il gallese in quel lontano 1994 aveva già una discreta reputazione da difendere e un paio di Premier vinte sul curriculum vitae, ad appena 21 anni. In tanti lo avevano pure accostato al grande Best. In effetti le movenze feline e il dribbling secco non avevano molto da invidiare a quelle del Belfast Boy. In quello stesso anno il buon Ryan segnò un gol al Tottenham ubriacando l'intera difesa degli Spurs. Roba da vero fuoriclasse, qual è ed è sempre stato il ragazzo di Cardiff, che scelse il cognome e soprattutto la nazionalità della madre per fare un dispetto al padre rugbista, inglese e impenitente donnaiolo. Se invece di evoluire con i dragoni gallesi, Giggs avesse occupato la fascia sinistra del centrocampo della compagine dei Tre Leoni forse a Londra e dintorni non starebbero ancora rimpiangendo i fasti del mondiale del 1966. Il sogno proibito di Massimo Moratti - che ha provato a più riprese a portarlo via dall'Old Trafford, invano - il successo e la fama internazionale li ha conquistati in dosi industriali indossando la maglia del Manchester United. Nel fantastico 1999 del Treble, in semifinale di FA Cup con l'Arsenal realizzò una rete ancora più bella di quella del match con il Tottenham. Dopo una serie infinita di serpentine iniziate dalla sua metà campo, scoccò un tiro impressionante sotto l'incrocio dei pali. Sulla soglia dei 36 anni, Giggs ormai non ha più lo scatto di una volta, tanto che non di rado Ferguson lo fa giocare centrale, ma il suo sinistro accarezza ancora il pallone come solo i grandi campioni sanno fare.

A breve potrebbe fregiarsi dell'undicesimo titolo di campione d'Inghilterra, a cui si aggiungono un'infinità di altri trofei, comprese due Coppe dei Campioni. Ma, soprattutto, il mago gallese ha superato il record di presenze in maglia Red Devils che fino allo scorso maggio apparteneva ad un altro mostro sacro del calcio britannico e non solo: Sir Bobby Charlton. Al momento le partite disputate da Giggs sono ben 792 e sono destinate ad aumentare, visto che ha firmato il rinnovo di contratto per un anno. Un altro recordman dello United è il «vecchietto terribile» Edwin Van Der Sar. Tra lo scorso 8 novembre e il 4 marzo è riuscito a non prendere mai gol, rimanendo imbattuto per 1.311 minuti. Il brocco, come lo avevano marchiato in Italia dopo qualche papera di troppo commessa alla Juventus, in Inghilterra ha rimesso in sesto la sua carriera ben figurando al Fulham, tanto da essere scelto come nuovo portiere titolare da Sir Alex nel 2005. Di papere da quel momento ne ha scodellate ben poche. Anzi, è stato lui lo scorso 21 maggio a regalare la terza Coppa dei Campioni della storia dei Red Devils parando un rigore di Nicolas Anelka. Non sarà un fuoriclasse come Buffon, beneficerà pure del valore e del tasso tecnico dei quattro difensori che fanno sì che dalle sue parti arrivino ben pochi tiri, però l'olandese è uno di quei giocatori lasciati partire con troppa facilità dal nostro calcio.

Questa sera Ferguson si affida a lui e a tanti veterani della vecchia guardia per sconfiggere l'Inter. Questa volta i giovani leoni possono attendere.

Pubblicato sul Manifesto l'11 marzo scorso.

sabato 14 marzo 2009

Due giorni nel Lancashire, tra i bei ricordi del passato e l'attualità della Champions League

La prima e l'ultima squadra a vincere il campionato inglese. Ovvero il Preston North End e il Manchester United. Sul campo la distanza attuale tra le due compagini del Lancashire non è paragonabile alla iato temporale, ma poco ci manca. Il Preston se la cava discretamente nella insidiosissima Championship, lo United, beh, forse è superfluo parlare dei suoi successi, tanto sono universalmente conosciuti.

Se il team che fu di George Best e Bobby Charlton è ormai uno dei simboli del cosiddetto corporate football, il PNE è uno dei club del panorama inglese che più ha provato a rimanere fedele alla tradizione. Sarà perché ospita il meraviglioso museo del football inglese, sarà perché nel totale rifacimento del suo impianto, il Deepdale, ha cercato di non snaturare lo schema architettonico dei bei tempi andati, ad ogni modo l'impressione che abbiamo avuto passando un pomeriggio e una sera a casa del Preston ci ha confermato la buona pubblicità di cui gode il club.

Abbiamo accennato al museo, un vero gioiello che tutti i tifosi di calcio dovrebbero visitare. Oltre a una preziosa ricostruzione della storia del football e del contesto sociale in cui si andava man mano a innestare, si trovano delle vere chicche. Abbiamo potuto ammirare il pallone della finale dei mondiali del 1966 e quelli utilizzati nel 1930 in Uruguay per la prima Coppa del mondo. E ancora, le magliette indossate da un giocatore inglese nella prima partita ufficiale con la Scozia (1872) e da Sir Stanley Matthews durante la sua apparizione nella celebre finale di coppa del 1953 (che il suo Blackpool vinse per 4 a 3 ai danni del Bolton). A proposito di divise di gioco, c'è anche quella del Maradona versione “mano de dios”. Non stupisce che quando i tifosi inglesi gli passano accanto si lascino sfuggire qualche commento non proprio amichevole...

La terza versione della FA Cup, datata 1896, fa poi bella mostra in una delle teche del museo, insieme a centinaia di altri preziosi memorabilia. Lo stadio del Preston, invece, ha una gradevole particolarità: in tre delle quattro tribune con il colore dei seggiolini è stata riprodotta l'immagine di tre grandi giocatori della storia del club: Tom Finney, Alan Kelly e Bill Shankly (“quel” Bill Shankly che negli anni Sessanta ha portato il Liverpool dall'anonimato della Seconda Divisione alla vetta della Prima Divisione).

Il match a cui assistiamo, tra la compagine di casa e lo Sheffield Wednesday, serve a ribadire alcune nostre convinzioni: il livello delle squadre di Championship è alto ma vista la presenza di un elevato numero di giocatori britannici il tipo di gioco ha mantenuto l'impronta “all'inglese” e che ormai negli stadi d'oltre Manica è quasi la norma che siano i supporter in trasferta a essere più attivi di quelli di casa. Questo perché tifando “in blocco” (e rimanendo quasi tutti in piedi) sono meno controllabili da parte degli steward.

Per la cronaca, proprio quando i sostenitori del Wednesday stavano già festeggiando una meritata vittoria esterna, il Preston ha trovato il gol del pareggio, che però non gli permette di rimanere in zona play offs.

La seconda parte della nostra gita nel Lancashire si svolge presso ben altro palcoscenico. Ci attende il maestoso Old Trafford di Manchester per il ritorno degli ottavi di Champions League tra Inter e United. Se i tifosi della beneamata sono saliti fin quassù da tutta Italia, almeno a giudicare dai dialetti che abbiamo sentito, quelli del Manchester United arrivano da tutto il mondo, sempre tenendo in considerazione le lingue parlate dai fan in maglietta e cappellino presenti all'Old Trafford. Per farsi un'idea di quale potenza commerciale siano ormai divenuti i Red Devils basta farsi un giro al club shop, o forse dovremmo dire megastore. Le casse aperte sono una ventina, la fila dei clienti, pardon, tifosi, molto lunga. Tra loro anche molti interisti, ben determinati a portare a casa un souvenir della trasferta a Manchester. Fortunatamente anche sul piano dell'ordine pubblico le cose filano lisce. Rispetto al passato (vedi il famoso match con la Roma del 2007), gli inglesi sembrano aver imparato la lezione e aprono prima l'accesso al settore dedicato ai supporter nerazzurri, che intanto nell'attesa di entrare nel teatro dei sogni avevano intonato cori di incoraggiamento alla squadra e di sberleffo nei confronti della Juventus (c'era pure chi mostrava con orgoglio uno striscione con la scritta “Grazie Chelsea”.

Una volta iniziata la partita l'umore delle truppe neroazzure muta in maniera repentina. I 4mila interisti vengono sovrastati dai 70mila fan di casa. Le fiammate di Ibrahimovic e compagni ogni tanto resuscitano il contingente di tifosi italiani, che però cadono nella più profonda depressione quando Ronaldo trafigge Julio Cesar a inizio ripresa. “You're non special anymore”, cantano rivolti a Mourinho nella Stretford End. Non sei più speciale, caro Josè. Gli “speciali” ormai sono altri e portano il diavoletto sul petto.

mercoledì 11 marzo 2009

Il National Football Museum di Preston

Se mi avessero concesso l'accredito, oggi mi sarei visto dal vivo la lezione impartita dal Liverpool al Real Madrid. Invece nisba, mi dovrò accontentare, si fa per dire, di Manchester United vs Inter di domani. In compenso mi sono fatto un giro a Preston, dove il museo del calcio ha soddisfatto appieno le mie aspettative (non a caso ci ho trascorso quasi due ore). Ci sono delle vere chicche, tipo il pallone della finale dei mondiali del 1966 o la maglietta indossata da uno dei giocatori della nazionale inglese nel primo match ufficiale della storia contro la Scozia (1872). E poi memorabilia di ogni tipo, che farebbero gola a qualsiasi collezionista.
Già che c'ero ho approfittato per andare al Deepdale, dove il match tra i locali e lo Sheffield Wednesday è stato tutto sommato godibile, con tanto di pareggio in extremis del Preston. I tifosi in trasferta già stavano festeggiando i tre punti...

lunedì 9 marzo 2009

Due chiacchiere con Massimo Marianella

E' un appassionato particolare, Massimo Marianella. Lo si capisce quando lo chiamiamo in causa per parlare del parallelo tra Roma e Arsenal, due squadre che se la "daranno di santa ragione" per preservare il loro posto in Champions League. Il telecronista più esperto tra quelli annoverati dalla “squadra” dell'emittente Sky Sport Italia è assolutamente uno di quei personaggi da scoprire, che amano il calcio e il loro lavoro e che "non tolgono la gamba" quando c'è da spiegare in maniera precisa e decisa il proprio pensiero relativamente ai valori in campo del prossimo match di ritorno tra i Gunners e i giallorossi di Luciano Spalletti, match che designerà quale tra le due accederà ai quarti di finale della Champions League.

Massimo, da più parti si è parlato di possibili similitudini tra Arsenal e Roma, sia dal punto di vista del gioco che da quello societario. Secondo te esistono davvero? "Non credo che Arsenal e Roma abbiano un gioco così simile. Quello proposto dai Gunners guidati da Arsene Wenger da una decina d’anni a questa parte è il calcio più bello e spettacolare al mondo. Certo, i giallorossi di Spalletti giocano molto palla a terra e sono riusciti spesso a fornire ottime prestazioni dal punto di vista stilistico, ma io non vedo molte somiglianze nel loro rispettivo modo di impostare i 90 minuti, specie perché senza dubbio l'Arsenal è qualitativamente superiore alla Roma perché tutti i suoi giocatori sono molto dotati tecnicamente. Anche a livello societario la situazione presenta poche analogie. A Londra Nord tutti vedono con scetticismo la scalata societaria del miliardario russo Alisher Usmanov, mentre a Roma in tanti si sarebbero augurati l’arrivo di un magnate straniero, come si è potuto notare nella vicenda-Soros. Francamente non escludo che, come le altre grandi della Premier, anche l’Arsenal possa finire in mani straniere. Anzi, do quasi per scontato che una cosa del genere possa accadere molto presto!".
Però entrambi i club investono molto sui giovani...
"In quell’ambito l’Arsenal ha fatto senza dubbio da “apripista” a livello globale, iniziando una tendenza che è stata poi copiata da molte altre società, tra cui anche la Roma. I giallorossi hanno saputo investire molto bene sui talenti emergenti e poi hanno il grande vantaggio di poter annoverare tra le proprie fila tre giocatori cresciuti nel vivaio, romani e romanisti come Totti, De Rossi e Aquilani. Un caso più unico che raro nel panorama mondiale. Un punto d’orgoglio per la società e tutto l’ambiente".
Invece l’Arsenal ha sempre avuto tanti giocatori stranieri, anche se adesso si stanno facendo strada un po’ di britannici come Wilshire, Ramsey e Simpson. È frutto di una scelta oppure è casuale?
"Wenger ha sempre detto di non guardare al passaporto, ma alle qualità dei calciatori. Poi se sono inglesi è meglio solo perché così la stampa è più contenta. È un dato di fatto che ci sono tante nuove leve di nazionalità britannica che stanno cerando il salto in prima squadra, ma non fa parte di una sorta di piano ad hoc".
Il nuovo arrivato Andrei Arshavin è uno dei pochi “vecchietti”, anche se ha solo 28 anni. Potrà sul serio diventare una delle stelle più splendenti del firmamento della Premier?
"No. Per carità, è un ottimo giocatore e credo che con l’Arsenal farà molto bene, ma non raggiungerà il livello dei migliori in assoluto".
Torniamo alla sfida di Champions League. I giochi sono ancora aperti... "Indubbiamente. Prima della gara d’andata pensavo che delle tre italiane la Roma fosse quella più accreditata per un passaggio del turno. Alla luce della gara d’andata ho rivisto questa mia convinzione. I Gunners hanno meritato la vittoria, ma come capita spesso quest’anno hanno giocato bene sprecando troppe occasioni. All’Emirates la Roma è apparsa fin troppo intimidita dagli avversari, ma all’Olimpico non dovrà fare l’errore di farsi prendere dalla fretta. I giallorossi devono avere pazienza, non buttarsi all’attacco all’arma bianca, evitando invece di concedere spazi ai Gunners. Specialmente se dovesse rientrare Adebayor, una conduzione di gara troppo spregiudicata da parte della squadra di Spalletti potrebbe costare molto cara".
Quale può essere la chiave tattica per battere l’Arsenal?
"Come dimostrato nel secondo tempo dell’Emirates, il centrocampo della Roma non può prescindere da un elemento come Pizarro. Lui, insieme ad Aquilani, sostituto dello squalificato De Rossi, può dare la qualità necessaria per ribaltare il risultato. E poi avanti Vucinic è sicuramente più valido di Baptista. Uno che non aveva lasciato ottimi ricordi all’Emirates e che lo scorso 24 febbraio non ha fatto nulla per far ricredere i tifosi dell’Arsenal…".

Intervista fatta per Goal.com

venerdì 6 marzo 2009

Una sera al Loftus Road, al capezzale del QPR in crisi profonda

Per il Queen’s Park Rangers la partita interna con il pericolante Norwich City rappresentava con tutta probabilità l’ultima occasione per riagganciare il treno dei play offs della Championship. Purtroppo per loro, gli hoops – i “cerchi”, soprannome che prende spunto dalle strisce orizzontali bianco-blu della maglia – hanno miseramente fallito questa ultima chance di risollevare una stagione finora molto deludente.

Eppure nonostante i Rangers siano reduci da una striscia di cinque match senza vittorie e ci sia un tempo da lupi, i tifosi non si tirano certo tirati indietro, riempiendo quasi del tutto le tre tribune del Loftus Road a loro riservate. Insomma niente spalti deserti, che invece sfortunatamente si vedono troppo spesso nella Serie B nostrana.

L’impianto dove da oltre 90 anni gioca il QPR è uno dei più comodi da raggiungere via tube, la mitica metropolitana londinese. Con la Central Line (linea rossa) sono poche fermate dal centro cittadino. Scesi a White City il tratto a piedi da compiere è breve, su una strada costeggiata a destra dal palazzone della BBC e a sinistra da un campetto in sintetico che ha visto tempi migliori.

Rispetto alle nostre prime visite da queste parti – ahinoi, è passato qualche annetto… - lo stadio è rimasto pressoché immutato. La nuova proprietà Briatore-Ecclestone-Mittal ha provveduto a far compiere qualche lavoretto di cosmesi soprattutto nelle zone dedicate all’hospitality. E poi campeggia ovunque il nuovo stemma, o crest, come si dice da queste parti. Lo scudo bianco-blu sormontato da un pallone e da una corona è un po’ ovunque – anche se noi, inguaribili nostalgici, preferivamo quello vecchio con le tre lettere QPR intrecciate tra loro.

Dentro il Loftus Road ricorda un po’ i vecchi stadi del Subbuteo: tribunette compatte e della stessa altezza,con qualche colonna d’antan che però non disturba troppo la visuale, la distanza delle linee laterale rispetto agli spalti molto ridotta, così come lo spazio tra le file di seggiolini e i piloni dell’illuminazione che svettano maestosi ai quattro angoli del campo.

Il terreno di gioco è messo maluccio. Chissà se i ricconi che siedono nel board stanno pensando di dotarlo di un impianto sotterraneo “stato dell’arte” come quello dell’Emirates. L’importante è che non tirino fuori dalla soffitta l’astroturf impiegato negli anni Ottanta – ovvero il campo in sintetico, anche quello molto Subbuteo-style.

L’inizio del match sembra preso in prestito da qualche dvd con le compilation del football inglese anni Settanta e Ottanta: niente fronzoli, tante azioni d’attacco e un ritmo da finale olimpica dei 400 metri. Il neo-acquisto Jordi Lopez, spagnolo ex Maiorca, è il padrone del centrocampo, ben coadiuvato dal talentuoso ma discontinuo Wayne Routledge. L’ex Palace, Tottenham e Fulham svaria da destra a sinistra, mettendo sempre in ambasce la retroguardia del Norwich. Dopo una ventina di minuti, però, per il QPR si spegne la luce. Gli ospiti provano anche ad impensierire la difesa biancoblu e raggiungere la seconda vittoria in tutto il 2009, sulla quale costruire una salvezza al momento insperata.

Alla quarta palla lunga consecutiva sparata nel vuoto dai padroni di casa, il gruppetto di amici di mezza età che ha trovato posto alle nostre spalle inizia a spazientirsi. “Roba da Sunday morning football (ovvero quello giocato la domenica mattina da migliaia di dilettanti sparsi per il Paese)”. E ancora “Ci meritiamo un posto a metà classifica”. Come dargli torto, dai vari Dexter Blackstock, Heidur Helguson e Liam Miller ci si aspetta sicuramente di più e anche il forcing messo su all’inizio della seconda frazione di gioco non è che un’illusione. Poi arriva la “frittata”, quella che combina Kaspar Gorkss. Il difensore lettone, messo in difficoltà dal pressing alto esercitato dai canarini, dà via un pallone che in qualche modo poi arriva sui piedi di Darel Russell. Il centrocampista insacca da 7-8 metri con la gradita collaborazione di Radek Cerny non trattiene. Troppa grazia per i mille sostenitori del City assiepati dietro la porta dell’ex estremo difensore del Tottenham, che infatti impazziscono di gioia – uno invade pure il campo, prontamente placcato da un paio di steward. La reazione dei Rangers è poca cosa. Entrano in campo l’italiano Samuel Di Carmine e l’ex West Ham Hogan Ephraim, ma solo quest’ultimo si mette un po’ in evidenza. Ma è una questione di sfumature.

Il QPR costruisce solo un paio di azioni pericolose, mentre il Norwich in contropiede non punge, dovendosi affidare quasi esclusivamente al veterano Carl Cort, un lungagnone che almeno al Loftus Road è sembrato prontissimo per andare in pensione.

Presso altri lidi il fischio finale dell’arbitro sarebbe stato salutato in ben altri modi. Qui non si va oltre una pur nutrita salva di boo e fischi. I quattro compari della fila dietro alla nostra sono un po’ scettici sul reale valore di Paulo Sousa. D’altronde anche sulla stampa locale circolano già voci di una panchina scricchiolante e di un Flavio Briatore fin troppo “invadente” nella gestione tecnica. Sarà. Effettivamente visti i risultati e il gioco espresso, un po’ di colpe sono da imputare anche alla società e alle sue scelte. Società che, dopo quasi due anni di promesse, si appresta a vivere anche la stagione 2009-2010 nel purgatorio del calcio inglese. Dura la vita in Championship, mister Briatore…

Questo articolo esce oggi anche su Goal.com. Che fortuna dover andare andare a Londra per lavoro (quello per la mia Ong) e poi la sera ritrovarsi al tanto amato Loftus Road!

domenica 1 marzo 2009

Mancheter United e Tottenham, finale in Coppa di Lega

Il Tottenham per salvare la stagione, il Manchester United per cominciare un possibile, inedito poker di vittorie. In estrema sintesi sono questi i temi della finale della Coppa di Lega inglese, sponsorizzata dalla birra Carling, che si terrà oggi all’ombra del gigantesco arco del nuovo Wembley.

Sarà pur vero che oltre Manica è il trofeo che conta di meno – ma garantisce un posto in Europa e poi forse suscita più interesse della nostra bistrattata Coppa Italia – tuttavia una volta giunti all’atto finale, con la splendida cornice dello stadio nazionale, nessuno è disposto a concedere nulla all’avversario.

Per gli Spurs, appena eliminati dalla Coppa Uefa, la League Cup è una vera e propria ancora di salvezza per una stagione che dire fallimentare sembra quasi un complimento. Da possibile nuova quarta forza del calcio inglese, il Tottenham si è ritrovato in piena zona retrocessione, da dove si sta tirando fuori molto a fatica sotto la guida di Harry Redknapp. Ovvero colui che in corso d’opera è stato chiamato a sostituire Juande Ramos, poi passato al Real Madrid. Singolare come uno dei tecnici più controversi della Premier – più volte “chiacchierato” per possibili mazzette ai procuratori – nell’ultimo scampolo di mercato abbia rafforzato la squadra affidandosi a ben tre cavalli di ritorno: Robbie Keane, Jermain Defoe e Pascal Chimbonda. Oggi a fare coppia con il russo Roman Pavlyuchenko ci sarà il reietto (da Benitez del Liverpool) Keane, e non l’infortunato Defoe.

Quasi superfluo sottolineare come i grandi favoriti per il successo finale siano i Red Devils, reduci dalla scintillante prova di San Siro in Champions League. Sir Alex Ferguson si affiderà ad alcuni dei giovani che gli hanno permesso di raggiungere l’ennesima finale della sua carriera (anche se nei precedenti in Coppa di Lega ha perso tre atti conclusivi su cinque). Purtroppo per lui non potrà contare sul brasiliano Rafael, uno dei gemelli Da Silva. L’erede di Gary Neville, grande rivelazione del campionato inglese edizione 2008-09, è fuori per un brutto infortunio alla caviglia e vedrà dalla tribuna anche il ritorno con l’Inter.

Tutto scontato, tutto già deciso? Non proprio. Nelle ultime apparizioni a Wembley, sia gli Spurs che Redknapp sono tornati a casa con la medaglia dei vincitori. La compagine del White Hart Lane proprio nella scorsa edizione di Coppa di Lega trionfò ai supplementari avendo la meglio del favoritissimo Chelsea. Sempre lo scorso anno, il manager ha avuto l’onore di alzare la ben più importante Coppa d’Inghilterra con la sua ex squadra, il Portsmouth.

Insomma, i precedenti invitano a sperare che sia una partita in grado di regalare qualche emozione e non un monologo in salsa biancorossa. Almeno a parole la sfida “promette bene”. Pavlyuchenko ha già definito Dimitar Berbatov, il suo predecessore ora allo United, “uno snob arrogante”. Musica per le orecchie dei fan del Tottenham, che detestano il bulgaro. E non vedono l’ora di batterlo e aggiudicarsi la quinta League Cup della loro storia.

Pubblicato oggi dal Manifesto.