giovedì 12 gennaio 2012

Torna l'incubo del razzismo?

Di recente l'immagine del calcio inglese è stata sporcata da episodi conclamati o meno di razzismo che hanno avuto protagonisti in negativo niente meno che una stella del Liverpool (Luis Suarez) e il capitano della nazionale dei Tre Leoni (John Terry). Se per la bandiera del Chelsea è atteso ancora un pronunciamento della giustizia sportiva e di quella ordinaria, il forte attaccante dei Reds si è beccato una punizione esemplare – otto giornate di stop – per aver apostrofato ripetutamente Patrice Evra con l'appellativo di “negretto”. Insomma, visto anche il caso degli insulti rivolti da un tifoso del Liverpool al giocatore dell'Oldham Athletic Tom Adeyemi durante un recente match di Coppa d'Inghilterra, c'è di che preoccuparsi. A essere onesti, però, tutte le campagne inscenate negli ultimi decenni per debellare il fenomeno del razzismo hanno sortito dei risultati molto positivi.

Basta fare un raffronto con quanto succedeva negli anni Settanta e Ottanta per rendersi conto di quanto siano realmente cambiate le cose. Tanto per fare un breve excursus storico, i flussi migratori dalle ex colonie – le isole caraibiche prima e soprattutto Pakistan e India in un secondo momento – a partire dagli anni Cinquanta iniziarono a modificare in maniera profonda il tessuto sociale del Regno Unito, e in particolare di Londra, dove ancora nel 1951 solo un abitante su 20 era nato fuori dai confini nazionali (nel 1991 gli asiatici e i neri ammonteranno invece a 1,35 milioni, un quinto della popolazione totale).

Il percorso di integrazione non fu affatto semplice, oltre a essere marcato da episodi di intolleranza sfociati in atti di violenza su larga scala come i già menzionati riots di Notting Hill nel 1958. “Keep England White”, era lo slogan dei Teddy Boys e dei movimenti parafascisti che avevano in Edward Mosley il loro mentore in quei difficili anni dell'inizio del processo di integrazione. La crisi economica che investì l'Inghilterra negli anni Settanta finì per acuire il problema.

Il disorientamento della working class londinese era palese. A celebri discorsi improntati alla xenofobia come quelli del politico conservatore Enoch Powell – che prefigurò “fiumi di sangue” per la rivolte causate dalla questione razziale e invitò a più riprese a cacciar via i migranti – ebbero una eco molto forte nelle porzioni dell'East End più povere e afflitte dalla disoccupazione.

Proprio in una squadra dell'East End, il West Ham, a quell'epoca giocava Clyde Best, un ragazzo dal fisico da pugile che nel 1968 passò dalle spiagge dorate e dal sole di Bermuda ai campi fangosi e al cielo uggioso di Londra. A soli 18 anni debuttò in Prima Divisione in un derby contro l'Arsenal.

In sette stagioni in claret & blue Best, che di ruolo faceva l'attaccante, disputò 218 partite, segnando 58 goal. Insomma, grazie alla sua determinazione e voglia di fare se la cavò benino, nonostante l'atteggiamento ostile e smaccatamente razzista che spesso il pubblico avversario – e a volte amico – teneva nei suoi confronti. Clyde non si curava dei versi della scimmia e delle banane lanciate al suo indirizzo. Li considerava inconvenienti del mestiere, come i tanti fallacci che subiva dai difensori avversari. Forse aveva compreso che negli anni a venire le cose sarebbero migliorate, i giocatori neri non sarebbero più stati un'eccezione (un po' come fu l'ottimo centravanti Walter Tull degli Spurs a inizio secolo), ma in alcuni casi addirittura la regola e che la società inglese avrebbe pian piano posto un argine alle manifestazioni di razzismo. È vero, per tanto tempo ancora ci sarebbero stati segmenti di alcune tifoserie che non “contavano” i goal dei black players. Capitava al Chelsea, dove nella Shed le infiltrazioni dei gruppi fascisti National Front e Combat 18 si fecero sentire. Ma per fortuna in altri casi, come per l'Arsenal, il credo politico di queste organizzazioni non attecchì tra il popolo delle gradinate.

Anche a livello istituzionale ci fu un'inversione di tendenza. Quanto accaduto al londinese Jack Leslie, che nonostante le caterve di goal segnati nel Plymouth Argyle (oltre 400 fra il 1920 e il 1935) non giocò mai in nazionale e l'unica volta che fu convocato ricevette una comunicazione di scuse per l'errore, dal momento che in federazione non si erano accorti che era un “uomo di colore”, non si sarebbe mai più ripetuto. Almeno a partire dal 1978, quando nell'amichevole vinta per 1-0 nei confronti della Cecoslovacchia debuttò in nazionale il primo giocatore di colore della storia dei Tre Leoni, Viv Anderson. Poco più di 20 anni dopo, ai mondiali nippo-coreani del 2002, di neri nella rosa dell'Inghilterra ce n'erano nove e gli episodi di razzismo negli stadi inglesi erano diminuiti in maniera sensibile, a dispetto del crescente numero di colored in campo.

Considerato quanto accaduto di recente, però, c’è ancora bisogno di tanto lavoro. A partire dall’”educare” alcune stelle della Premier.

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