mercoledì 26 ottobre 2011

Wenger, un futuro incerto

“In Arsene We Trust”, recita uno striscione che fa bella mostra di sé nella nuova North Bank a ogni partita casalinga dell’Arsenal. Ma davvero ci si può ancora fidare del Professor Wenger? Vale la pena sposare in toto il suo innovativo, spettacolare ma non sempre vincente concetto di calcio? Dopo le delusioni del recente passato e il mediocre inizio di stagione – che ha avuto il suo nadir nell’umiliazione dell’8-2 dell’Old Trafford – non sono pochi gli addetti ai lavori e i tifosi che si chiedono se abbia ancora senso la permanenza del francese sulla panchina dell’Arsenal.

Un regno, quello di Wenger, che dura da tanto tempo, addirittura dalla stagione 1996-97. Il primo manager straniero della storia dei Gunners fu caldamente raccomandato – ironia della sorte – da un ex stella degli eterni rivali del Tottenham, Glenn Hoddle, rimasto molto colpito dalla maestria tattica del francese ai tempi della comune militanza nel Monaco.

L’Arsenal veniva dai disastrosi 14 mesi di gestione di Bruce Rioch e pur di mettere sotto contratto Wenger decise di aspettare fino al gennaio 1997, accontentandosi si un allenatore ad interim per l’inizio di quella stagione. Il buon Arsene, infatti, era finito a lavorare in Giappone, al Nagoya Grampus Eight, che fortunatamente in un secondo momento si decise a farlo partire prima della scadenza pattuita. La squadra continuava ad andare male e il manager a tempo Stewart Houston aveva già rassegnato il suo mandato.

All’arrivo di Wenger dalle parti di Avenell Road non ci furono certo manifestazioni di giubilo collettive, per l’arrivo del francese. In pochi lo conoscevano, sebbene girasse voce che fosse molto preparato. A Londra lo soprannominarono ben presto il professore perché una delle prime foto rimbalzate sulla carta stampata lo ritraeva accanto a una libreria. Peccato che sugli scaffali non ci fossero le opere immortali di Charles Dickens o William Shakespeare, ma vecchi programmi dell'Arsenal.

I nuovi schemi imperniati su un calcio offensivo, fatto di possesso palla, sovrapposizioni e tagli continui, erano una evidente rottura con il passato fatto di football cinico e concreto, addirittura un catenacciaro, all’ennesima potenza. Il boring (noiso) Arsenal di George Graham, foriero però di tanti successi a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. Un po’ come fu rivoluzionario il mitico Herbert Chapman nel periodo prima della Seconda Guerra Mondiale, Wenger non si limitò alla tattica, ma impose forti cambiamenti un po’ ovunque. Convinse il board a investire una decina di milioni di sterline per un nuovo centro allenamenti all’avanguardia, mutò le abitudini alimentari della squadra (niente più cucina inglese ma tanta verdura, riso e pasta) al punto che adesso c’è un dietista che stila un piano personalizzato per ogni giocatore, non mise un veto esplicito sull’alcool, ma fece di tutto per “scoraggiare” il suo consumo, infine istituì un approfondito studio delle statistiche relative a ogni gara disputata. A fine carriera Dennis Bergkamp veniva sostituito sempre al settantesimo perché Wenger sapeva, dati alla mano, che negli ultimi venti minuti di match rendeva pochissimo.

Potendo contare su una grande difesa, plasmata soprattutto da Graham, Wenger inserì pedine fondamentali come un giovane e ancora quasi sconosciuto Patrick Vieira, la promessa Nicolas Anelka e poi via via campioni già affermati come Marc Overmars, Thierry Henry (“scippato” alla Juventus) e Robert Pires. I suoi primi dieci anni di regno hanno prodotto tre vittorie in Premier (quella del 2003-04 senza perdere nemmeno una partita), quattro FA Cup e altrettante Community Shields, facendo di lui il manager più vincente della storia del club del nord di Londra. Nel 2006 ha sfiorato una Champions League, persa sul filo di lana contro il Barcellona di Ronaldinho. Il problema è che adesso i ricordi di quei successi si stanno sbiadendo, a fronte di troppe annate (ormai sei) senza alzare nemmeno un trofeo. Le ultime quattro stagioni sono coincise con la fiera delle illusioni: inizi folgoranti e finali col fiato corto, cortissimo.

I massicci investimenti economici per la realizzazione del nuovo stadio ad Ashburton Grove hanno “obbligato” Wenger ad affidarsi ancor di più ai giovani, che però evidentemente arrivano anche loro nei mesi decisivi troppo spompati fisicamente e di testa per reggere l'urto di match fondamentali per l'esito della Premier o della Champions League.

Il digiuno di affermazioni nei principali tornei domestici o internazionali in occasioni come la finale di Coppa di Lega del 2007 può essere in parte imputato a una sorta di “integralismo” del tecnico francese. Siccome in Carling Cup venivano schierate sempre le seconde linee per fare esperienza, era giusto che scendessero in campo anche nell'atto conclusivo che si erano guadagnate. Pazienza se poi quella partita fu vinta dal Chelsea, che poteva contare sull'undici titolare. Per la verità nel 2011 ha cambiato un po' questo atteggiamento, visto che contro il Birmingham sempre in Coppa di Lega, di riserve ce n'erano pochine. Ma il risultato non è cambiato, con i Gunners che hanno buttato alle ortiche la vittoria sul più bello.

In Inghilterra ormai il dibattito è aperto e quanto mai stimolante, visto che, comunque la si veda, parliamo pur sempre di uno dei migliori allenatori degli ultimi 20 anni a livello internazionale.
Gli estimatori di Wenger, quelli del partito “Arsene knows best”, continuano a esaltare il gioco sublime che spesso offre la squadra e l’ineguagliabile capacità del tecnico francese di tramutare promesse di belle speranze in calciatori di ottimo livello. “Non eri un giocatore di classe mondiale quando sei arrivato a Highbury”, la celebre ed esemplificativa risposta del francese a Patrick Vieira, il quale nel 2004 si era lamentato perché la squadra non era stata rafforzata con quelli che di questi tempi chiameremmo top player.
I fan dell’alsaziano, inoltre, ci tengono a ribadire che lo strapotere economico di squadre come Chelsea e Manchester City – che negli ultimi tempi hanno “depredato” i Gunners, soffiandogli giocatori del calibro di Ashley Cole, Emmanuel Adebayor, Kolo Touré, Gael Clichy e Samir Nasri – è difficile da contrastare.
I detrattori, il cui numero è in crescita, non fosse altro perché chi paga tanto prima o poi si vuole pure togliere la soddisfazione di festeggiare qualche trionfo, rinfacciano al manager una mancanza di flessibilità tattica che porta l’Arsenal a commettere troppe volte gli stessi errori (incapacità di chiudere le partite, frequenti distrazioni sui calci piazzati e gioco offensivo troppo monocorde). Negli ultimi quattro anni ci si è messo pure il calo a inizio marzo a peggiorare le cose. I Gunners iniziavano la stagione facendo fuoco e fiamme, spegnendosi poi miseramente quando arrivavano le partite decisive. La doppia sfida di semifinale contro il Manchester United in Champions League nel 2008-09 è un esempio calzante, mentre in campionato il crollo più clamoroso è senza dubbio quello del 2010-11, quando si è passati dalla lotta per il titolo a uno striminzito quarto posto.

Mettiamola così, Wenger è sì un grande conoscitore di calcio, ma sfuggendo sempre l’ammissione dei propri errori non riesce certo a risolvere i problemi del team. Troppo spesso si è riparato dietro la foglia di fico dei torti arbitrali o del trattamento violento che i suoi ragazzi subiscono dagli avversari. L’errore del giudice di gara ci può stare, ma se a Barcellona (Champions League 2010-11) si va con il proposito di “fare il proprio gioco” e poi si viene dominati in lungo e in largo, qualche mea culpa va fatto.

Un’altra colpa che gli addebita la fazione degli scettici è la cattiva gestione dei movimenti di mercato. Non era meglio vendere Fabregas già nel 2010? Perché per tanti anni nell’Arsenal hanno giocato portieri e difensori di scarsa qualità? Per una volta non era meglio investire una ventina di milioni di sterline su un campione già formato e non un giovane con scarsissima esperienza come Alex Oxlade-Chamberlain? Questi sono solo alcuni degli interrogativi che rimbalzano sui tanti forum di tifosi dell’Arsenal proliferati negli ultimi tempi su internet.

Estremi difensori del calibro di Jens Lehmann, Manuel Almunia e Lukasz Fabianski – quest’ultimo definito una volta dallo stesso Wenger “portiere di caratura mondiale” – sono forse le prove viventi più palesi della cocciutaggine del tecnico alsaziano. Trovarne di migliori, anche senza spendere una fortuna, non era proprio impossibile. Quello del budget di mercato rimane un altro mistero per molti affezionati biancorossi. Troppe volte il manager dell’Arsenal ha dichiarato di aver a disposizione qualche decina di milioni di sterline per rinforzare la squadra, altrettanto di frequente si sono fatte campagne acquisti di basso profilo, perché Wenger ha preferito non aprire i cordoni della borsa.

Pubblicato sul numero di Calcio 2000 di ottobre

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