martedì 24 agosto 2010

Lisbona e il lungo addio di Bicicletta

Bell'articolo sul calcio che fu, anche se non si parla solo di calcio britannico.

La foto è datata Lisbona 25 maggio 1967, scattata verosimilmente con lo zoom da fondo campo: al fischio finale, i giocatori con la maglia a strisce orizzontali e i numeri sui pantaloncini alzano le braccia in un giubilo composto, i nerazzurri invece guardano a terra: a sinistra, sconsolato e di spalle, colui che ha il numero 10 e dovrebbe essere Luisito Suarez in realtà è il biondo Mauro Bicicli che lo ha sostituito, pari al conterraneo cremonese Renato Cappellini, non lontano da lui, che invece ha giocato al posto di Jair. La foto, che rinvia mestamente al tramonto della Grande Inter nel momento in cui sancisce il trionfo dei biancoverdi del Celtic Glasgow battezzati all'istante Lisbon Lions, Leoni di Lisbona, è a pagina 60 dell'agile e utile storia del club più cattolico d'Europa, scritta a quattro mani da Luca Manes e Max Troiani , Celtic forever. You'll never walk alone (Bradipolibri, pp. 124, 14 euro) con una bella prefazione di Roberto Beccantini. Così, quel pomeriggio di luce dilagante che resta nel ricordo insieme con l'apoteosi dei ragazzi di Jock Stein (una sequenza di nomi ormai leggendari, quali Gemmell, Chalmers, Auld, Lennox e la minuscola ala destra Jimmy Johnstone detto la Pulce Volante) sottotraccia è il passo d'addio di un buon giocatore che a lungo ha onorato il calcio senza averne, dopo tutto, il debito riconoscimento. Bicicli non è un campione, tanto meno un fuoriclasse, ma incarna tuttavia il profilo del calciatore serio, affidabile, generoso. Vale a dire il giocatore, ora come allora, che permette ai campioni di rifulgere in quanto tali e a una squadra che sia grande sulla carta di esserlo anche sul campo.

Nato a Crema nel 1935, detto Bicicletta per la rapidità del gioco, Mauro Bicicli esordisce a vent'anni nell'Inter dove resta per nove stagioni, cadenzate da prestiti a Parma, Catania e Genoa, prima di passare al Vicenza e poi chiudere vicino a casa sua, al Brescia, nel '69. E' un'ala vecchio stile, portata a scattare verso il fondo e a chiudere i triangoli con un cross in area di rigore. Infaticabile, dispone di un buon tiro di destro ma segna relativamente poco, più per l'innato altruismo che per carenza tecnica: oltretutto il Mago lo impiega volentieri da mediano, a stantuffo sulla fascia, ciò che anticipa di fatto l'odierna posizione per cui l'esterno è un calciatore universale che riassume le caratteristiche sia del terzino sia dell'ala tradizionale. Insomma, ricordano i tecnici, Bicicli è un Angelo Di Livio ante litteram, di pochi gol ma taluni memorabili.

In una sua memoria, nota lo scrittore lodigiano Andrea Maietti: «Domenica 27 novembre del 1960. Era il primo anno del Mago. L'Inter aveva esordito sotterrando l'Atalanta a Bergamo per 5 a 1. A Herrera potevamo persino perdonare la sempre più palese intenzione di estromettere dalla formazione titolare Valentin Angelillo, distratto dal mal d'amore. Quella domenica a San Siro era ospite la Sampdoria. Pa' Pino era appena tornato da una battuta di caccia. Dal carniere vuoto occhieggiava la penna iridata di un fagiano tenebroso. Pa' aveva disertato per l'Inter la festa all'osteria. Al principio della ripresa l'aletta Bicicli segnò il 2 a 0: L'è brau. E' di Crema, uno dei nostri... commentò Pa', con compiaciuto sorriso». In effetti il gol è stupendo, uno slalom degno dei fuoriclasse che Bicicli ammira ed è costretto più volte a marcare da avversario, Schiaffino, Sivori, infine lo stesso Mario Corso: scappa in contropiede sulla destra, va in assolo, dribbla un paio di avversari, mette letteralmente a sedere il portiere in uscita, poi entra in porta con la palla e tutto. Dichiarerà, in una delle ultime interviste (a Livio Pedrini La Provincia, 31 gennaio 2001): «Ne facevo pochi di gol, ero laterale destro ma stavo sulla difensiva. Ne ricordo uno a San Siro, ho dribblato anche il portiere della Sampdoria, Ugo Rosin, e persino Herrera mi ha fatto i complimenti. Ma non dimenticherò mai quelli fatti ai mitici Jascin e Gilmar nelle amichevoli con Urss e Brasile».

Sono lampi improvvisi o precarie intermittenze di un atleta che ha avuto fortuna relativa pure da allenatore (Brescia, Ospitaletto, Fanfulla, Legnano) prima di spegnersi nella sua città, a soli sessantasei anni, il 22 agosto 2001, del male che si è portato via in successione tanti vecchi compagni, da Armando Picchi e Carlo Tagnin a Giacinto Facchetti. Anche a Lisbona, gli è andata come non avrebbe immaginato. Nel pieno sole, l'Inter gioca meno di un quarto d'ora, va in vantaggio con Mazzola su rigore poi si chiude nel consueto e perfetto riserbo, in attesa di colpire in contropiede. Ma la squadra è decotta, regge poco più di un tempo, perché nel secondo la veemenza offensiva del Celtic attinge il furore; di quel momento topico, scrivono Manes e Troiani: «A metà frazione Craig si fa perdonare la sciocchezza che ha provocato il penalty. Dopo aver ricevuta la palla da Murdoch, la smista subito a Gemmell, posizionato poco fuori della linea che delimita l'area di rigore. L'assist è perfetto. Il difensore degli Hoops e della nazionale scozzese scocca un tiro al volo di rara bellezza che si insacca alla destra dell'incolpevole Sarti. (...) A cinque minuti dal termine delle ostilità Murdoch spara un tiraccio in diagonale dal vertice sinistro dell'area di rigore, Chalmers si trova sulla traiettoria, a pochi metri dalla porta di Sarti, e non deve far altro che sfiorare la palla per segnare uno dei gol più facili della sua carriera».
Qui anche la partita di Bicicli va in malora. Non più giovanissimo, Herrera non soltanto gli ha dato la maglia del grande Suarez ma ha preteso navigasse nell'invaso che Gianni Brera (trasecolato, lì a Lisbona, in uno scranno dello Stadio Nazionale) ama definire il «Mare Magno del centrocampo». Impietosi, i residui filmati su internet lo mostrano fuori dal gioco come tutti i colleghi di reparto, in affanno perpetuo dietro a Johnstone, Wallace e Auld. Chiude, recupera, si prodiga, segue lo scarso fraseggio dei compagni per quel tanto che può ma gli toccano appena due o tre lanci e un tiro da fuori senza conseguenze per il portiere Simpson. Questo è dunque il suo lungo addio, quasi un congedo in effigie che riassume in allegoria il decorso di una vita che all'inizio parve promettere molto ma infine fu gelidamente avara con Mauro Bicicli da Crema, il calciatore detto Bicicletta.

Massimo Raffaeli, Manifesto del 22 agosto 2010

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