Il pomeriggio del 6 febbraio 1958 a Monaco di Baviera si consumò una delle più terribili tragedie della storia del calcio inglese. Il seguente brano è tratto dal mio libro "Manchester United, la leggenda dei Busby Babes". Un omaggio a dir poco doveroso.
Sulla via del ritorno in Inghilterra l’aereo su cui viaggiavano i giocatori, lo staff tecnico e dirigenziale e un nutrito gruppo di giornalisti si fermò all’aeroporto Reim di Monaco di Baviera per effettuare un rifornimento di carburante, già programmato in precedenza. Nella mattinata la partenza da Belgrado aveva avuto un intoppo – Johnny Berry aveva smarrito il suo passaporto – per cui si era registrato un piccolo ritardo. Sul volo BE 609 della British European Airways l’atmosfera era del tutto rilassata, come può capitare a una squadra di calcio di ritorno da una vittoriosa trasferta europea. Durante lo scalo a Monaco ci fu chi ne approfittò per prendersi allegramente a pallate di neve – Colman e Pegg – o chi fece un po’ di shopping per la mamma – Whelan. Alle 15.19 fu chiamato il volo. Durante la sosta le condizioni del tempo sembravano ulteriormente peggiorate. Il cielo era uno strato uniforme di nuvole e nevicava fitto fitto. I due piloti, James Thain e Kenneth Raymont, provarono un paio di volte a decollare, ma senza successo. Il velivolo fu ricondotto al terminal e i passeggeri, alquanto preoccupati, sbarcati in vista di un consulto con i tecnici dell’areoporto. In molti pensarono che fosse molto meglio passare la notte a Monaco di Baviera, al caldo di un hotel.
Duncan Edwards mandò addirittura un telegramma alla sua padrona di casa, avvertendo che, viste le condizioni atmosferiche proibitive, avrebbe passato la notte in Germania. Purtroppo Edwards si sbagliava di grosso. Il telegramma arrivò a destinazione solo alle 5 del pomeriggio, quando la tragedia si era già compiuta.
Passarono pochi minuti, quindi si decise di fare un terzo tentativo. I giocatori, risaliti sul velivolo con più di una remora, aspettavano in silenzio l’evolversi della situazione. Nessuno giocava più a carte, nessuno scherzava. C’era molta tensione. Credendo di essere più sicuro, Pegg si andò a sedere nella parte posteriore del velivolo, vicino a Taylor, Edwards, Colman e alla maggior parte dei giornalisti. In cabina di pilotaggio il responsabile delle comunicazioni, Bill Rodgers, avvertì la torre di controllo che l’aereo stava in fase di rollaggio sulla pista. Erano da poco passate le quattro. Il charter della British European prese gradualmente velocità, poi improvvisamente perse potenza. Nel bel mezzo della manovra di decollo l’aereo, ormai ingestibile e al contempo impossibilitato a librarsi in aria, proseguì la sua corsa fino al termine della pista, dove colpì violentemente le protezioni esterne. Un’ala squarciò le mura di una casa vicina che prese così fuoco (fortunatamente in quel momento l’abitazione era deserta). A quel punto sia la coda che l’ala stessa si staccarono rovinosamente dall’aereo. Quel che rimaneva del velivolo, sballottato a folle velocità tra massicci sbuffi di neve, finì la sua corsa senza senso centrando prima un albero con la cabina di pilotaggio e poi un piccolo deposito in legno con la fusoliera. All’interno della baracca si trovava un camion pieno di carburante e di pneumatici, per cui l’urto causò un’esplosione e un successivo incendio. Erano le 16.04 di giovedì 6 febbraio 1958 (le 15.04 a Manchester). Tra la carcassa reclinata di quello che quasi non si riconosceva più come un aeroplano, in mezzo alla coltre di fumo generata dalle deflagrazioni, giacevano i corpi dei giocatori del Manchester United e della loro corte di tecnici, dirigenti e giornalisti.
Alcuni dei Babes furono scaraventati fuori dalla cabina con tutto il seggiolino, come accadde a Charlton, Byrne e Viollet. Incredibilmente Gregg riuscì a uscire da un buco tra le lamiere solo con qualche graffio. Analoga sorte toccò a Foulkes. Lo spettacolo che si presentò davanti agli occhi dei due era di agghiacciante devastazione e morte. Byrne (28 anni), Jones (24), Pegg (22), Whelan (22), Colman (21), Taylor (26) e Bent (25) erano deceduti sul colpo. Al momento dello schianto avevano perso la vita altre undici persone, tra cui Crickmer, Whalley e Curry. La stampa pagò un prezzo altissimo. Tutti i giornalisti al seguito della squadra, tranne Frank Taylor, non ce la fecero. Si spense anche il mastodontico Frank Swift, ex portiere del Manchester City e della nazionale inglese. Oltre a quelli dello United ed agli otto esponenti della carta stampata perirono poi un membro dell’equipaggio, un agente di viaggio e un tifoso. Tra i ventidue superstiti alcuni apparvero subito molto gravi. Busby, Edwards, Berry e Blanchflower, oltre al pilota Rayment, erano in pericolo di vita e insieme agli altri feriti furono trasportati in ospedale dai soccorritori – arrivati con un certo ritardo. Per Rayment e uno dei giocatori era l’inizio di una lunga agonia.
Una volta giunti al nosocomio, il Rechts der Isar, Gregg e Foulkes furono lasciati per ore su delle poltrone, con addosso delle coperte rimediate alla bell’e meglio. Successivamente furono accompagnati all’hotel Stakus dal console britannico, accorso a loro conforto. Una volta arrivati in albergo, Foulkes, ancora visibilmente sotto shock, fumò la prima sigaretta della sua vita, mentre sorseggiava un whisky che purtroppo non poteva far dimenticare tutto l’orrore di quel pomeriggio.
Al Recht der Isar rimanevano i corpi dei ragazzi straziati dall’incidente, sia i morti che i vivi.
Il giorno dopo andò subito a riprenderseli l’unico membro dello staff tecnico che non aveva attraversato la Manica per andare a Belgrado: l’assistente di Busby, Jimmy Murphy. Uno dei padri putativi dei Babes non era con la squadra per una pura coincidenza, uno scherzo del destino che forse gli salvò la vita. Il giorno prima della partita a Belgrado, infatti, si giocava un incontro di qualificazione ai mondiali di Svezia 1958. Il ritorno del match di spareggio contro Israele a Murphy, allenatore della nazionale gallese, sembrava una partita scontata, per la quale non era necessaria la sua presenza. I dragoni, infatti, avevano già vinto all’andata per 2-0 (stesso risultato poi della partita di Cardiff), per cui Murphy si sentiva molto più emotivamente coinvolto dalla difficile trasferta dello United in casa della Stella Rossa. Tuttavia fu convinto dalla sua federazione ad andare al Ninian Park di Cardiff e non a Belgrado. Obbedì a malincuore, rinunciando a una trasferta europea a cui teneva tanto.
Murphy fu uno dei primi ad apprendere del tragico destino dei suoi amati ragazzi. A dare la ferale notizia al gallese, appena tornato all’Old Trafford dopo la partita del Galles, fu la segretaria personale di Busby, Alma George. Il vice-allenatore dello United se lo fece ripetere per due volte, tanto era incredulo. Poi iniziò a piangere, ancora ignaro dei dettagli su chi si fosse salvato e chi fosse perito. Sapeva solo che in tanti non sarebbero tornati a Manchester. Allo stesso momento capì che si doveva fare forza e continuare il suo lavoro. Proprio a lui sarebbe toccato l’ingrato compito di telefonare a tutte le famiglie delle vittime, una volta appresi i particolari della triste vicenda. Dovette farsi forza e informare madri, fidanzate e mogli che i loro cari non ce l’avevano fatta.
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