mercoledì 18 aprile 2012

C'è Chelsea v Barcellona, i Blues alle prese con i fantasmi del passato

Un mio pezzo pubblicato oggi sull'Unità.

Il Chelsea e la Champions League, una relazione quanto mai travagliata. I Blues si apprestano ad affrontare il Barcellona nella doppia sfida di semifinale partendo senza i favori del pronostico, a differenza di quanto accaduto nel recente passato. Ovvero quando, sebbene annoverati tra i possibili vincitori, non erano mai riusciti ad alzare la coppa dalle grandi orecchie. Una volta si è messo di traverso il Monaco dei miracoli, un'altra una maledetta scivolata di John Terry dal dischetto del rigore ha cancellato il sogno sul più bello, un'altra ancora un arbitro norvegese di nome Tom Ovrebo ha deciso di falsare con le sue enigmatiche decisioni una semifinale dominata proprio contro i catalani.

Ma quando la competizione si chiamava Coppa dei Campioni ed era alla sua prima edizione assoluta nel 1955-56 le cose andarono ancora peggio. Non fosse altro perché alla squadra fresca vincitrice della First Division inglese fu comunicato che non avrebbe affrontato gli svedesi del Djurgardens nel primo turno del torneo. “Questa partita non si ha da fare”, aveva tuonato il segretario della Football League Alan Hardaker, contrario alla partecipazione dei club inglesi alle competizioni continentali.

Una posizione oltranzista e retrograda, infarcita di snobismo e mal riposto senso di superiorità, che costò molto caro al team del West End londinese.

Quel Chelsea era lontano anni luce dall'attuale, ricco, vincente e tra le squadre più famose al mondo. Negli anni Cinquanta i Blues avevano le casse societarie, annaspavano nelle parti basse della First Division ed erano ben poco alla moda, come può testimoniare il soprannome dell'epoca, i Pensioners. Nel simbolo che li aveva accompagnati fino al 1952 era raffigurato un pluri-medagliato ospite del Royal Hospital, una casa di riposo per militari a due passi dallo Stamford Bridge.

Per spazzar via le ragnatele e ringiovanire l'ambiente ci volle un manager come Ted Drake. Ex simbolo dell'Arsenal da giocatore, Drake raccolse il Chelsea ai margini della zona retrocessione. Già nel 1953-54 condusse i Blues a un insperato ottavo posto.

La sua fu una rivoluzione a 360 gradi. Con il suo avvento sui programmi del Chelsea sparì il pensioner e comparve il leone rampante, poi mantenuto con piccole modifiche fino ai giorni nostri.

Considerate allora le ridotte disponibilità economiche, Drake fece di necessità virtù, divenendo il mago degli acquisti a poco prezzo ma al contempo di qualità, andando a scovare i giocatori dove in tanti non si sarebbero mai sognati.

E poi seppe coltivare tanti giovani talenti, che sbocciarono in prima squadra dopo essere passati per il campo di allenamento di Welsh Harp Ground. La stampa li coccolò inventandosi per loro il simpatico soprannome di Drake's Ducklings (gli anatroccoli).

Ciò nonostante, il pensiero che i Blues potessero celebrare il loro cinquantesimo anniversario con l'affermazione in First Division non sfiorò la mente del più ottimista dei tifosi reduce da una serata ad alto tasso alcolico nel pub sotto casa.

Forse nemmeno Drake ci sperava troppo. Il primo segmento della campagna 1954-55 fu condotto sulla falsariga delle precedenti, ovvero maluccio. A novembre il Chelsea era dodicesimo, poi si scosse dal torpore e prese a macinare risultati con la doppia vittoria su una grande dell'epoca come il Wolverhampton.

Proprio i Wolves, insieme a Sunderland e Portsmouth si dovettero arrendere ai Blues, campioni con un bottino di punti tra i più bassi della storia del calcio inglese.

Ma se sminuissimo troppo quel trionfo del Chelsea faremmo un immeritato torto a gente del calibro di Roy Bentley e Stan Willemse. Il primo era un capitano alla John Terry come personalità – al Bridge campeggia ancor oggi uno striscione in suo onore – ma di ruolo faceva, e bene, l'attaccante, tanto che quell'anno siglò 21 reti. Il secondo può essere paragonato a JT per il timore che incuteva agli avversari.

Come premio Bentley e compagni ricevettero un vestito fatto su misura da un sarto di Kensington. Non dubitiamo che la qualità del completo sia stata ottima, ma certo a pensare la valanga di soldi che sommerge i calciatori moderni (e quelli del Chelsea in particolare) a ogni trofeo conquistato viene da sorridere.

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