Negli anni Settanta l’abitudine ormai inveterata dei club inglesi – non solo di Premier – di vivere al di sopra dei loro mezzi era ancora ben lontana dal manifestarsi. I costi erano più contenuti, i dirigenti non vivevano alle spalle delle società, gli agenti non strappavano commissioni milionarie e soprattutto i giocatori non avevano contratti da nababbi. Certo, gli introiti erano minori, ma ce li si faceva bastare. C’erano però anche allora delle eccezioni di rilievo. Una era senza dubbio rappresentata dallo Stoke City. Una realtà storica del calcio d’oltre Manica – nata nel 1863, è stata tra i membri fondatori della Football League – che per lunghi periodi ha trascorso scialbe stagioni lontano dalla massima divisione. Solo con l’enfant du pays Stanley Matthews negli anni Trenta i Potters riuscirono a sollevarsi un po’ dalla mediocrità che li contraddistingueva, senza tuttavia vincere nessuna competizione di rilievo. Dopo la Seconda Guerra Mondiale arrivarono altre annate cupe e bisognò attendere fin verso la metà degli anni Sessanta per rivedere qualche sprazzo degli antichi bagliori. Merito, come spesso accade, di un manager valente come Tony Waddington, bravo a saper sfruttare al meglio l’esperienza di giocatori affidabili ma un po’ in là con l’età come Dennis Viollet, Maurice Setters e Jimmy McIlroy e a strappare alla concorrenza il fenomenale portiere campione del mondo con i Tre Leoni nel 1966, Gordon Banks.
Lo Stoke provò a recuperare il tempo perduto scalando posizioni in campionato e facendo strada nelle coppe. In FA Cup centrò due semifinali consecutive nel 1971 e nel 1972, trovando però sempre la strada sbarrata da un Arsenal d’antan (così forte che nel 1971 centrò addirittura il double). Ma nel 1972 i Potters riuscirono finalmente a mettere le mani sul primo trofeo della loro storia ultracentenaria, sconfiggendo 2-1 il Chelsea di Peter Osgood nella finale di Coppa di Lega. Nel 1974-75 terminarono la First Division a soli quattro punti dal Derby County campione, orfano di Nigel Clough ma allenato dal suo pupillo Dave Mackay.
A difendere i pali di quella squadra c’era Peter Shilton, un altro portiere acquistato dal Leicester City, come Banks – nel frattempo ritiratosi per problemi di salute. La stella costata un mucchio di denaro – 325mila sterline, per l’epoca un vero e proprio cifrone – doveva servire a garantire il salto di qualità definitivo. A dirla tutta sarebbe stato meglio investire quei soldi in maniera più oculata, per esempio trovando un degno sostituto al centravanti John Ritchie (capocannoniere della storia dello Stoke con 171 reti), che proprio nell’estate del 1975 aveva deciso di appendere le scarpe al chiodo. Oppure lasciare quel denaro nelle casse societarie, visto l’uragano che si stava per abbattere sui poveri Potters. Non parliamo per metafora, nell’inverno del 1976 la città dell’Inghilterra centrale fu investita da una tempesta di pioggia e vento così violenta da scoperchiare il tetto della Butler Stand, una delle tribune del vecchio Victoria Ground.
La copertura assicurativa si rivelò tragicamente inadeguata, solo una piccola porzione dell’ingente fattura per i costi di riparazione. La dirigenza dello Stoke capì che erano finiti i tempi di vacche grasse, che i debiti andavano ripagati e anche di fretta. Bisognava vendere i pezzi pregiati dell’argenteria di famiglia. Jimmy Greenhoff, l’idolo della tifoseria biancorossa, si accasò malvolentieri al Manchester United, Alan Hudson passò all’Arsenal e Mike Pejic fu venduto all’Everton. Nessuno si sorprese allorché già nel 1977 la squadra retrocesse in Second Division. Ci sono voluti decenni, ma ora gli Stoke hanno cancellato per sempre le ferite di quella terribile notte di burrasca che li mise in ginocchio, almeno dal punto di vista economico. Il revival biancorosso procede alla grande. Il team non pratica un gioco spettacolare, ma trasuda concretezza e solidità da tutti i pori, mentre la gestione societaria è quanto mai attenta. Questa volta non basterà un colpo di vento per spazzar via i sogni di gloria.
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