Per un motivo o per l’altro, le nuove arene destinate a ospitare i Giochi Olimpici sono spesso e volentieri fonte di polemiche e diatribe. L’impianto di Londra non fa eccezione, anzi. Non era stato nemmeno completato e già volavano le carte bollate e i ricorsi legali. Per fortuna non per ritardi o altri difetti relativi alla sua costruzione, visto che di problemi al riguardo non ce ne sono stati e i tempi di consegna sono stati rispettati. Il casus belli è un altro e si riferisce alla sostenibilità a medio e lungo termine dello stadio.
Premessa: a Londra ci sono già templi dello sport come Wembley e Twickenham. Il rischio che l’Olympic Stadium fosse impiegato una volta l’anno solo per il principale meeting d’atletica che si svolge nella capitale inglese (e nemmeno per i concerti, che già hanno sede altrove) era altissimo. La soluzione trovata dalla Olympic Park Legacy Company consisteva nell’affidarlo tramite un contratto di vendita o affitto a qualche club calcistico in cerca di una casa più grande e spaziosa. Tottenham e West Ham United si sono subito fatti avanti, spendendo molto tempo e fior di quattrini nella loro attività di lobbying. In un primo momento, nel febbraio del 2011, sembrava aver avuto la meglio l’ex compagine di Paolo Di Canio. Essenzialmente per due motivi: la vicinanza alla loro sede storica – l’Olimpico si trova a Stratford, in pieno East End londinese – e soprattutto la promessa della dirigenza di mantenere la pista d’atletica, apportando solo modifiche marginali all’impianto. Gli Spurs rimangono un club espressione del Nord di Londra e inoltre avevano intenzione di abbattere e ricostruire l’Olimpico a loro piacimento – e quindi senza pista. In cambio, il Tottenham avrebbe contribuito a rimodernare il piccolo Crystal Palace National Sports Centre.
Una volta presa la decisione, però, è cominciata la ridda di ricorsi. Oltre al Tottenham, è partito lancia in resta anche Barry Hearn, il presidente del piccolo Leyton Orient, club di terza serie con una base di tifosi molto ridotta. Lo stadio del Leyton, infatti, si trova a una sola fermata di metropolitana dall’Olimpico. Hearn teme la presenza di un vicino “ingombrante”, qualunque esso sia, tanto che ha prefigurato l’ipotesi di poter sfruttare direttamente l’impianto. L’idea di avere una struttura da 80mila posti occupata da soli 4mila tifosi (tale è la media stagionale del Leyton) non ha certo suscitato molto entusiasmo.
Lo scorso ottobre l’Olympic Park Legacy Company, che nel frattempo non aveva siglato nessun contratto preliminare con il West Ham, si è arresa e ha compiuto una rapida marcia indietro.
Nel frattempo la federazione internazionale ha assegnato a Londra i mondiali di atletica del 2017 e per la gioia dei suoi sostenitori il Tottenham appare intenzionato a costruirsi lo stadio vicino all’esistente White Hart Lane. Rimangono quindi in lizza il Leyton e il solito West Ham, che invece di acquistare l’arena la potrebbe affittare. Gli Irons sono appena risaliti in Premier dopo una rocambolesca vittoria nei play offs di seconda serie contro il Blackpool e come tutte le neopromosse ostentano programmi ambiziosi e la voglia di raggiungere traguardi importanti (almeno a parole). I due proprietari David Gold e David Sullivan sono convinti che in un modo o nell’altro dal 2014-15 lasceranno lo storico impianto di Boleyn Ground – dove gli Irons giocano dal 1904 – per il tanto agognato Olimpico. Non tutti i tifosi si sono detti entusiasti all’idea di dover vedere le partite senza stare attaccati al campo (in Inghilterra non sono per niente abituati alle piste d’atletica…) e di abbandonare lo storico impianto di mille battaglie. Ma tant’è, almeno nel calcio oltre Manica sono passati sopra a tante tradizioni e anche il West Ham sembrerebbe non voler fare eccezione.
In un contesto così ingarbugliato, il pericolo che l’Olympic Stadium diventi l’ennesima cattedrale nel deserto è tutt’altro che da scartare. L’opera, val la pena rammentarlo, è costata circa 600 milioni di euro, che in tempi di austerità e di crisi come quelli che stiamo vivendo non è una cifra risibile. Almeno nel 1948, in pieno dopoguerra, per le precedenti olimpiadi il problema dello stadio non si pose, visto che c’era il vecchio Wembley. Nel nuovo, invece, la pista d’atletica non c’è più…
Mio articolo pubblicato oggi sull'Unità.
mercoledì 30 maggio 2012
giovedì 24 maggio 2012
West Ham, la fine di un incubo
Alla fine il West Ham United è riuscito a riacciuffare un posto in Premier, ma quanta fatica! I ragazzi allenati da Sam Allardyce, orfani del condottiero Scott Parker ceduto ai grandi rivali del Tottenham, sembrava dovessero far un solo boccone della Championship. A metà campionato la promozione era data da tutti, addetti ai lavori e tifosi, come cosa praticamente fatta. E invece gli Irons hanno deciso di complicarsi la vita oltre ogni dire. Non che il passato della squadra dell'East End londinese non sia punteggiato di cocenti delusioni e di harakiri veri e propri.
Nel momento topico della stagione sei pareggi e una sconfitta su sette partite casalinghe, sommati alla contemporanea irrefrenabile ascesa del Reading, hanno costretto il West Ham a passare per le forche caudine dei play offs (storicamente poco favorevoli per la terza classificata in campionato). I mugugni di inizio campionato, dettati dalla qualità non proprio sopraffina del gioco espresso dal team, in osservanza dei dettami intrisi di praticità ma privi di spettacolo di Allardyce, allorché le vittorie hanno iniziato a latitare si sono tramutati in aperta contestazione.
È risaputo, gli Hammers sono una delle culle del bel calcio in terra d'Albione, la loro Academy ha sfornato tanti campioni e un concetto di football basato sulla buona tecnica individuale e schemi di gioco abbastanza sofisticati. Insomma, i supporter degli Irons sono di bocca buona, sebbene a essere sinceri di recente di qualità dalle parti del Boleyn Ground non se ne sia vista molta e anche parecchie giovani promesse siano finite a fare panchina oppure abbiano cambiato aria (Junior Stanislas e Zavon Hines in particolare, anche se il primo solo in prestito).
Proprio sul fronte mercato la società ha cercato di ottimizzare le poche risorse a disposizione, centrando il colpaccio Ricardo Vaz Te. Allardyce lo aveva già avuto alle sue dipendenze al Bolton Wanderers, quando il portoghese era un giovane attaccante di belle speranze, per cui non ci ha messo troppo a convincerlo a passare dal Barnsley al West Ham. A 25 anni e con un recente passato non proprio scintillante, Vaz Te si è ritrovato con l'ultima chance per risollevare una carriera un po' incerta. E l'ha colta al volo. In 13 match in claret & blue ha messo a segno ben dieci reti. L'ultima nei minuti conclusivi della finale dei play offs contro il Blackpool. Il “salvatore della patria” ora dovrà confermare anche in Premier quanto fatto vedere di buono in Championship. Ciò non toglie che il duo Sullivan & Gold (i proprietari del club dal 2010) dovranno rinforzare la squadra, anche se attualmente il loro primo pensiero sembra essere lo Stadio Olimpico.
Sì, proprio l'impianto che a breve dovrà ospitare i Giochi di Londra 2012 e che lo scorso anno era stato “assegnato” al West Ham ma che dopo i ricorsi inoltrati da Leyton Orient e Tottenham è ancora in una sorta di limbo, in attesa che sia presa una decisione definitiva su chi lo debba sfruttare dal 2014 in poi. Personalmente non vorremmo vedere scomparire il Boleyn Ground per nessuna ragione, ma è evidente che l'Olimpico andrà pur usato in qualche modo e, vista anche la vicinanza geografica, forse la squadra più adatta a utilizzarlo è quella del leggendario Bobby Moore. Uno che ad Allardyce avrebbe fatto comodo, eccome.
Nel momento topico della stagione sei pareggi e una sconfitta su sette partite casalinghe, sommati alla contemporanea irrefrenabile ascesa del Reading, hanno costretto il West Ham a passare per le forche caudine dei play offs (storicamente poco favorevoli per la terza classificata in campionato). I mugugni di inizio campionato, dettati dalla qualità non proprio sopraffina del gioco espresso dal team, in osservanza dei dettami intrisi di praticità ma privi di spettacolo di Allardyce, allorché le vittorie hanno iniziato a latitare si sono tramutati in aperta contestazione.
È risaputo, gli Hammers sono una delle culle del bel calcio in terra d'Albione, la loro Academy ha sfornato tanti campioni e un concetto di football basato sulla buona tecnica individuale e schemi di gioco abbastanza sofisticati. Insomma, i supporter degli Irons sono di bocca buona, sebbene a essere sinceri di recente di qualità dalle parti del Boleyn Ground non se ne sia vista molta e anche parecchie giovani promesse siano finite a fare panchina oppure abbiano cambiato aria (Junior Stanislas e Zavon Hines in particolare, anche se il primo solo in prestito).
Proprio sul fronte mercato la società ha cercato di ottimizzare le poche risorse a disposizione, centrando il colpaccio Ricardo Vaz Te. Allardyce lo aveva già avuto alle sue dipendenze al Bolton Wanderers, quando il portoghese era un giovane attaccante di belle speranze, per cui non ci ha messo troppo a convincerlo a passare dal Barnsley al West Ham. A 25 anni e con un recente passato non proprio scintillante, Vaz Te si è ritrovato con l'ultima chance per risollevare una carriera un po' incerta. E l'ha colta al volo. In 13 match in claret & blue ha messo a segno ben dieci reti. L'ultima nei minuti conclusivi della finale dei play offs contro il Blackpool. Il “salvatore della patria” ora dovrà confermare anche in Premier quanto fatto vedere di buono in Championship. Ciò non toglie che il duo Sullivan & Gold (i proprietari del club dal 2010) dovranno rinforzare la squadra, anche se attualmente il loro primo pensiero sembra essere lo Stadio Olimpico.
Sì, proprio l'impianto che a breve dovrà ospitare i Giochi di Londra 2012 e che lo scorso anno era stato “assegnato” al West Ham ma che dopo i ricorsi inoltrati da Leyton Orient e Tottenham è ancora in una sorta di limbo, in attesa che sia presa una decisione definitiva su chi lo debba sfruttare dal 2014 in poi. Personalmente non vorremmo vedere scomparire il Boleyn Ground per nessuna ragione, ma è evidente che l'Olimpico andrà pur usato in qualche modo e, vista anche la vicinanza geografica, forse la squadra più adatta a utilizzarlo è quella del leggendario Bobby Moore. Uno che ad Allardyce avrebbe fatto comodo, eccome.
lunedì 21 maggio 2012
La sfida infinita tra Inghilterra e Germania
Articolo scritto per Goal.com e Alias e ovviamente uscito prima della finale. Come dire, ci ho preso: avevo scritto che nella finali contro le squadre inglesi il Bayern perde sempre quando gioca meglio...
“Il calcio è uno sport fatto di 22 giocatori che corrono dietro a un pallone e di un arbitro che ogni tanto fa qualche errore. E alla fine la Germania vince sempre”. Per capire quanto per gli inglesi sia importante, e temuto, un incontro con gli storici rivali tedeschi (e non parliamo solo di football), basta rileggersi le parole di Gary Linecker. Lui ha vissuto uno degli episodi meno fulgidi della diatriba sportiva tra le due nazionali: la semifinale di Italia 90, persa ai calci di rigori, poi risultati fatali ai Tre Leoni anche nel decisivo scontro diretto dell'Europeo casalingo del 1996.
Se si eccettua la finale dei Mondiali del 1966 – quella del celeberrimo goal-non goal di Geoff Hurst – negli ultimi decenni i tedeschi hanno spesso e volentieri avuto la meglio sugli inglesi. Un po’ diversa la storia dei confronti tra club. Qui i precedenti fanno ben sperare il Chelsea, che sabato sera contenderà al favorito Bayern di Monaco – avvantaggiato anche dal fatto di giocare nello stadio di casa, l’Allianz Arena – il trofeo più importante del panorama continentale, la Champions League. Proprio l’ex squadra di Franz Beckenbauer e Kalle Rummenigge ha un saldo negativo negli atti conclusivi delle coppe contro compagini d’oltre Manica. Per uno strano scherzo del destino, il Bayern ha sempre perso quando è stato dominatore incontrastato del campo. Successe nel 1982 contro l’AstonVilla, bravo a reggere l’urto dei teutonici e a colpire in contropiede con una rete del “bisonte” Peter Withe; andò ancora peggio nel 1999, quando Lothar Matthaus e compagni si videro sfilare la coppa nei minuti di recupero da uno United provato da una stagione massacrante quanto trionfale (non per niente conclusasi con il triplete). Dopo aver centrato pali e traverse e sprecato occasioni a ripetizione, in quell’incontro per certi versi surreale i tedeschi si fecero infilare due volte tra il 92° e il 93°, vedendo così vanificato il vantaggio iniziale di Mario Basler. Forse era una sorta di punizione degli dei del calcio per uno scippo perpetrato ai danni di un’altra squadra inglese 24 anni prima. Il Leeds United di Billy Bremner e Joe Jordan si schiantò contro il muro eretto dal portierone Seppe Maier– e per la verità anche contro parecchie decisioni discutibili prese dall’arbitro francese Michel Kitabdijan. Poi furono Franz Roth e quel mago del goal di Gerd Muller a infliggere il colpo mortale ai Whites.
Al di là dei controversi trascorsi con le inglesi, almeno nella bacheca del Bayern fanno bella mostra di sé ben quattro coppe dei campioni. Per il Chelsea e il suo attuale proprietario Roman Abramovich la coppa dalle grandi orecchie è diventata un'ossessione, una sorta di scimmia da scacciare dalla schiena il più presto possibile. I Blues non se la sono aggiudicata nemmeno con José Mourinho e con rose molto più forti e in salute di quella attuale. A Mosca, nel 2008 la sfiorarono appena. Poi il capitano di mille battaglie John Terry (sabato squalificato) scivolò al momento del rigore decisivo e il trofeo prese la via dell'Old Trafford di Manchester.
Per spazzare via quelle brutte memorie il Chelsea si può consolare con il ricordo del magico destro di trick box Gianfranco Zola nei tempi supplementari della finale di Coppa delle Coppe del 1998 contro loStoccarda e soprattutto riandare con il pensiero a uno dei momenti più eccitanti della storia del calcio inglese, compiutosi proprio a Monaco di Baviera (sebbene all'Olympiastadion). Era il 1 settembre 2001, nella qualificazioni per il mondiale nippo-coreano la nazionale allora guidata da Sven Goran Eriksson doveva lavare l'onta dell'1-0 dell'andata, ultimo match giocatosi all'ombra delle due torri del vecchio Wembley.
Dopo sei minuti segnò il pennellone Carsten Jancker, allora di proprietà del Bayern e poi passato senza lasciare troppe tracce anche a Udine. Solita storia, ennesima conferma della bontà dell'adagio di Linecker? Nemmeno per sogno, grazie a una tripletta di un giovane e all’epoca sano come un pesce Michael Owen e a due belle marcature di Steven Gerrard e Emile Heskey, l’Inghilterra umiliò 5-1 una Germania incredula, esterrefatta. La sfida continua.
“Il calcio è uno sport fatto di 22 giocatori che corrono dietro a un pallone e di un arbitro che ogni tanto fa qualche errore. E alla fine la Germania vince sempre”. Per capire quanto per gli inglesi sia importante, e temuto, un incontro con gli storici rivali tedeschi (e non parliamo solo di football), basta rileggersi le parole di Gary Linecker. Lui ha vissuto uno degli episodi meno fulgidi della diatriba sportiva tra le due nazionali: la semifinale di Italia 90, persa ai calci di rigori, poi risultati fatali ai Tre Leoni anche nel decisivo scontro diretto dell'Europeo casalingo del 1996.
Se si eccettua la finale dei Mondiali del 1966 – quella del celeberrimo goal-non goal di Geoff Hurst – negli ultimi decenni i tedeschi hanno spesso e volentieri avuto la meglio sugli inglesi. Un po’ diversa la storia dei confronti tra club. Qui i precedenti fanno ben sperare il Chelsea, che sabato sera contenderà al favorito Bayern di Monaco – avvantaggiato anche dal fatto di giocare nello stadio di casa, l’Allianz Arena – il trofeo più importante del panorama continentale, la Champions League. Proprio l’ex squadra di Franz Beckenbauer e Kalle Rummenigge ha un saldo negativo negli atti conclusivi delle coppe contro compagini d’oltre Manica. Per uno strano scherzo del destino, il Bayern ha sempre perso quando è stato dominatore incontrastato del campo. Successe nel 1982 contro l’AstonVilla, bravo a reggere l’urto dei teutonici e a colpire in contropiede con una rete del “bisonte” Peter Withe; andò ancora peggio nel 1999, quando Lothar Matthaus e compagni si videro sfilare la coppa nei minuti di recupero da uno United provato da una stagione massacrante quanto trionfale (non per niente conclusasi con il triplete). Dopo aver centrato pali e traverse e sprecato occasioni a ripetizione, in quell’incontro per certi versi surreale i tedeschi si fecero infilare due volte tra il 92° e il 93°, vedendo così vanificato il vantaggio iniziale di Mario Basler. Forse era una sorta di punizione degli dei del calcio per uno scippo perpetrato ai danni di un’altra squadra inglese 24 anni prima. Il Leeds United di Billy Bremner e Joe Jordan si schiantò contro il muro eretto dal portierone Seppe Maier– e per la verità anche contro parecchie decisioni discutibili prese dall’arbitro francese Michel Kitabdijan. Poi furono Franz Roth e quel mago del goal di Gerd Muller a infliggere il colpo mortale ai Whites.
Al di là dei controversi trascorsi con le inglesi, almeno nella bacheca del Bayern fanno bella mostra di sé ben quattro coppe dei campioni. Per il Chelsea e il suo attuale proprietario Roman Abramovich la coppa dalle grandi orecchie è diventata un'ossessione, una sorta di scimmia da scacciare dalla schiena il più presto possibile. I Blues non se la sono aggiudicata nemmeno con José Mourinho e con rose molto più forti e in salute di quella attuale. A Mosca, nel 2008 la sfiorarono appena. Poi il capitano di mille battaglie John Terry (sabato squalificato) scivolò al momento del rigore decisivo e il trofeo prese la via dell'Old Trafford di Manchester.
Per spazzare via quelle brutte memorie il Chelsea si può consolare con il ricordo del magico destro di trick box Gianfranco Zola nei tempi supplementari della finale di Coppa delle Coppe del 1998 contro loStoccarda e soprattutto riandare con il pensiero a uno dei momenti più eccitanti della storia del calcio inglese, compiutosi proprio a Monaco di Baviera (sebbene all'Olympiastadion). Era il 1 settembre 2001, nella qualificazioni per il mondiale nippo-coreano la nazionale allora guidata da Sven Goran Eriksson doveva lavare l'onta dell'1-0 dell'andata, ultimo match giocatosi all'ombra delle due torri del vecchio Wembley.
Dopo sei minuti segnò il pennellone Carsten Jancker, allora di proprietà del Bayern e poi passato senza lasciare troppe tracce anche a Udine. Solita storia, ennesima conferma della bontà dell'adagio di Linecker? Nemmeno per sogno, grazie a una tripletta di un giovane e all’epoca sano come un pesce Michael Owen e a due belle marcature di Steven Gerrard e Emile Heskey, l’Inghilterra umiliò 5-1 una Germania incredula, esterrefatta. La sfida continua.
domenica 20 maggio 2012
Feet & Chips
Una sezione sul calcio inglese sul nuovo sito di Slow Foot: http://www.slowfoot.eu/index.php/link/14-blog/feet-and-chips. L'iniziativa di Slow Foot è assolutamente da sostenere e condividere, date subito un'occhiata al sito. Ne vale la pena!
Il Chelsea, i Pink Floyd e uno scotch terrier
Forse anche più del Big Ben o del Tower Bridge, per gli amanti della musica la Battersea Power Station è uno dei simboli di Londra. Un'opera ormai considerata di archeologia industriale, assurta nell'olimpo delle icone immortali grazie alla copertina di un disco non esattamente qualunque realizzato da un gruppo non proprio banale. È il 1977, in piena rivoluzione punk i Pink Floyd regalano al mondo “Animals” (lavoro che prende spunto dalla “Fattoria degli Animali” di George Orwell), sbattendo in copertina la vecchia centrale a carbone. Per la verità l'impianto, andato in pensione nel 1983, era comparso già nel 1965 in alcuni fotogrammi del film dei Beatles “Help”, ma quando lo si nomina un po' a tutti vengono in mente le melodie sofisticate di Roger Waters e David Gilmour. Dopo questo amarcord musicale, la notizia d'attualità pallonara è che fra qualche anno la Battersea Power Station potrebbe fare da meraviglioso sfondo al nuovo stadio del Chelsea. Roman Abramovich ha infatti formulato una cospicua offerta per aggiudicarsi l'ottantina di ettari di terra a due passi dal centro della capitale inglese dove dovrebbe sorgere la più spaziosa casa dei Blues (60mila spettatori di capienza). La concorrenza sarà dura.
Il terreno è concupito da tutti i palazzinari inglesi, che vorrebbero buttare giù le quattro ciminiere della power station per realizzare appartamenti dai costi proibitivi per la maggior parte dei comuni mortali. La dirigenza del Chelsea sarebbe – il condizionale in questi casi è sempre d'obbligo – disposta a mantenere la centrale, “sviluppando” il resto dell'abbondante terreno a disposizione. Insomma, il miliardario russo farebbe la felicità dei fan dei Pink Floyd, ma infliggerebbe l'ennesimo dispiacere agli amanti delle tradizioni del beautiful game, finendo per abbandonare un'altra icona del vecchio football come lo Stamford Bridge. Il vecchio Bridge, rivoluzionato negli ultimi dieci anni, ha già rischiato di scomparire addirittura 107 anni fa. Ovvero quando il Chelsea ebbe una genesi a dir poco singolare. In quel periodo i palazzinari Gus Mears e Joe Mears erano i proprietari dell'impianto, dove davano ospitalità al London Athletic Club di un atleta di belle speranze che rispondeva al nome di Fred Parker, loro caro amico. Quando l'allora presidente del Fulham Henry Norris (poi destinato a fare le fortune dell'Arsenal) rifiutò di trasferire la sua squadra allo Stamford Bridge, i Mears riposero in soffitta l'idea di sfruttare a fini commerciali l'arena sportiva. Manifestarono invece l'intenzione di cedere il terreno alla Great Western Railway, la quale necessitava di uno spazio per costruire un deposito per il carbone. Ma ecco arrivare l'inatteso colpo di scena.
Durante un incontro tra Gus Mears e Parker, in cui l'imprenditore avrebbe dovuto confermare i suoi propositi all'amico, accadde un episodio in apparenza spiacevole, ma che si dimostrò poi decisivo per le sorti dello Stamford Bridge. Lo scotch terrier del costruttore azzannò Parker. “Morde prima di parlare”, fu l'immediata giustificazione di Mears. L'atleta fu così colpito dalla sagacia dell'affermazione che dimenticò di colpo il dolore e si profuse in complimenti nei confronti del suo interlocutore, tanto da definirlo la persona di maggior fascino mai conosciuta in vita sua. Un encomio che fece colpo su Mears, il quale non solo decise di salvare lo Stamford Bridge, ma gli fornì anche un inquilino nuovo di zecca. Visto che di affittuari non se ne trovavano, tanto valeva farselo in proprio, il club di calcio. Fu così che nel marzo del 1905 nel tuttora esistente pub Rising Sun nacque il Chelsea, ora pronto a staccare per sempre il cordone ombelicale dall'impianto che lo ha “partorito” e da allora ospitato. Forse nella nuova arena oltre alla storica canzoncina “Blue is the colour” ascolteremo pure qualche capolavoro dei Pink Floyd, sperando che siano di gradimento di mister Abramovich.
Il terreno è concupito da tutti i palazzinari inglesi, che vorrebbero buttare giù le quattro ciminiere della power station per realizzare appartamenti dai costi proibitivi per la maggior parte dei comuni mortali. La dirigenza del Chelsea sarebbe – il condizionale in questi casi è sempre d'obbligo – disposta a mantenere la centrale, “sviluppando” il resto dell'abbondante terreno a disposizione. Insomma, il miliardario russo farebbe la felicità dei fan dei Pink Floyd, ma infliggerebbe l'ennesimo dispiacere agli amanti delle tradizioni del beautiful game, finendo per abbandonare un'altra icona del vecchio football come lo Stamford Bridge. Il vecchio Bridge, rivoluzionato negli ultimi dieci anni, ha già rischiato di scomparire addirittura 107 anni fa. Ovvero quando il Chelsea ebbe una genesi a dir poco singolare. In quel periodo i palazzinari Gus Mears e Joe Mears erano i proprietari dell'impianto, dove davano ospitalità al London Athletic Club di un atleta di belle speranze che rispondeva al nome di Fred Parker, loro caro amico. Quando l'allora presidente del Fulham Henry Norris (poi destinato a fare le fortune dell'Arsenal) rifiutò di trasferire la sua squadra allo Stamford Bridge, i Mears riposero in soffitta l'idea di sfruttare a fini commerciali l'arena sportiva. Manifestarono invece l'intenzione di cedere il terreno alla Great Western Railway, la quale necessitava di uno spazio per costruire un deposito per il carbone. Ma ecco arrivare l'inatteso colpo di scena.
Durante un incontro tra Gus Mears e Parker, in cui l'imprenditore avrebbe dovuto confermare i suoi propositi all'amico, accadde un episodio in apparenza spiacevole, ma che si dimostrò poi decisivo per le sorti dello Stamford Bridge. Lo scotch terrier del costruttore azzannò Parker. “Morde prima di parlare”, fu l'immediata giustificazione di Mears. L'atleta fu così colpito dalla sagacia dell'affermazione che dimenticò di colpo il dolore e si profuse in complimenti nei confronti del suo interlocutore, tanto da definirlo la persona di maggior fascino mai conosciuta in vita sua. Un encomio che fece colpo su Mears, il quale non solo decise di salvare lo Stamford Bridge, ma gli fornì anche un inquilino nuovo di zecca. Visto che di affittuari non se ne trovavano, tanto valeva farselo in proprio, il club di calcio. Fu così che nel marzo del 1905 nel tuttora esistente pub Rising Sun nacque il Chelsea, ora pronto a staccare per sempre il cordone ombelicale dall'impianto che lo ha “partorito” e da allora ospitato. Forse nella nuova arena oltre alla storica canzoncina “Blue is the colour” ascolteremo pure qualche capolavoro dei Pink Floyd, sperando che siano di gradimento di mister Abramovich.
martedì 15 maggio 2012
Gascoigne, genio e sregolatezza
“Paul Gascoigne è l’unica star di livello mondiale prodotta dall’Inghilterra dal 1966 ad oggi”. Se lo dice Alex Ferguson – che di giocatori di un certo spessore tecnico ne ha allenati un bel po’ – forse c’è da credergli. Ovviamente Gazza rimane uno dei grandi rimpianti dello scozzese, che un tentativo di metterlo sotto contratto lo aveva anche fatto. “Annoverandolo nella mia squadra sono sicuro che sarei riuscito a fare qualcosa di buono per lui”. E anche in proposito non sussistono molti dubbi. Chissà, forse Sir Alex sarebbe riuscito a imbrigliarlo a dovere, o quanto meno a mettere un freno ai suoi eccessi, come fece con un’altra testa calda quale Eric Cantona.
Chi però deve rimpiangere ancor di più il mancato approdo a una squadra di altissimo livello come lo United è proprio lui, quel mattacchione di Gascoigne.
Troppi gli episodi che lo hanno penalizzato, quasi tutti da imputare alla sua condotta non proprio irreprensibile, dentro ma soprattutto fuori dal campo. Eppure che fosse un predestinato si capì fin dagli esordi nel Newcastle United, la sua squadra del cuore, dove formava coppia con il brasiliano Mirandinha e deliziava le gradinate del St James’ Park con colpi di genio assoluti. Personaggio lo è stato fin dalla prima ora e gli aneddoti su di lui si sprecavano già quando vestiva la maglia bianconera. Tanto per capirci, quando i tifosi avversari gli davano del ciccione e gli tiravano le barrette di cioccolato, lui rispondeva mangiandosele!
Nel 1988 un Tottenham quanto mai ambizioso, allenato da Terry Venables e in procinto di strappare Gary Lineker al Barcellona, superò la concorrenza del Manchester United e fece sì che Gazza diventasse il primo inglese a doversi accollare l’ingombrante etichetta di giocatore da oltre due milioni di sterline. Con gli Spurs giunse la definitiva consacrazione in patria, ma a livello internazionale ci pensò Italia 90 a farlo entrare nell’esclusivo club dei fuoriclasse assoluti. Gascoigne quel torneo lo giocò da protagonista. Le sue lacrime durante la semifinale persa contro la Germania commossero il Paese, ma non bisogna scordare che il quarto posto raggiunto a quella Coppa del Mondo è tuttora il miglior risultato dei Tre Leoni a un mondiale, eccezion fatta per il trionfo del 1966. Finalmente nel firmamento delle stelle globali si poteva annoverare un calciatore inglese, che riusciva a coniugare alla perfezione estro e fantasia di stampo latino con grinta e determinazione, le caratteristiche tipiche del calcio britannico.
All’epoca la nostra bistrattata Serie A era ritenuta, a ragione, il campionato più bello e competitivo del Pianeta, la destinazione più ambita di tutti i campioni. Gazza non fece eccezione, meritandosi le attenzioni della Lazio cragnottiana. Peccato che il ragazzo, poche settimane prima di trasferirsi a Roma, nei primi minuti della finale di FA Cup contro il Nottingham pensò bene di commettere un fallo da indagine di Scotland Yard, procurandosi la rottura dei legamenti del ginocchio destro. Singolare il fatto che Gazza si accorse della reale entità del suo infortunio qualche minuto dopo essersi pure schierato in barriera e aver assistito al vantaggio del Forest…
Gli Spurs finirono per vincere quella coppa, portata di fretta e furia in ospedale dal povero Paul per rendere partecipe della festa anche lui. Quel trofeo, l’unico vinto su suolo inglese, portava anche la sua firma. Se nell’atto conclusivo era stato quanto meno sciagurato, in semifinale contro l’Arsenal aveva incantato Wembley, segnando una punizione alla Zico.
I nefasti effetti dell’entrata assassina su Gary Charles valsero a Gascoigne un anno di inattività e alla Lazio un cospicuo sconto sul contratto di acquisto dal Tottenham (da 5,5 milioni di sterline si passò a 3,5).
Con i bianco-celesti, a causa di altri problemi fisici, Gazza giocò poco, ma tutto sommato bene. Nei minuti finali di un derby segnò un goal di testa sotto la Curva Nord che accrebbe in maniera esponenziale la sua posizione di idolo assoluto della tifoseria laziale, che del nativo di Gateshead amava il genio quanto la sregolatezza – tante le sue goliardate nel periodo romano, con rutti davanti alle telecamere e vagonate di scherzi ai compagni di squadra. A metà degli anni Novanta, però, colui che Diego Armando Maradona non tanto tempo prima aveva designato come suo erede naturale si ritrovò con un fisico pieno di acciacchi (un altro infortunio molto serio lo rimediò in allenamento fratturandosi tibia e perone in un contrasto con Alessandro Nesta) e un bisogno urgente di rivitalizzare una carriera in apparente declino accasandosi ai Rangers. Una carriera purtroppo già condizionata in maniera pesante da episodi extra-calcistici (botte alla sua fidanzata e qualche ubriachezza molesta di troppo). A differenza della versione attuale, agonizzante e sull’orlo del fallimento, la compagine di Glasgow all’epoca era una delle corazzate del calcio europeo, che con Gazza si aggiudicò due dei nove campionati consecutivi fra il 1989 e il 1997. Nel mentre si ricordano altre prestazioni da incorniciare in nazionale durante l’Europeo casalingo del 1996 e un’altra delusione nella semifinale persa ancora ai rigori contro la solita Germania. La marcatura nel derby contro la Scozia – sombrero a Colin Hendry e stoccata al volo per trafiggere Andy Goram – è stato forse l’ultimo lampo di classe ad abbagliare la platea internazionale. Durante il primo Old Firm del 1998 rispose con un “gesto settario”, ovvero mimando di suonare il flauto delle marce orangiste protestanti, a una provocazione dei tifosi del Celtic. Apriti cielo. Dopo minacce di morte e reprimende della Scottish Football Association, decise lasciare Glasgow per riavvicinarsi a casa. A Middlesbrough arrivarono le ultime perle di calcio di un giocatore già assalito dai demoni dell’alcool e di chissà cos’altro, che alla notizia dell’esclusione dalla rosa dell’Inghilterra per i mondiali francesi fece a pezzi una camera d’albergo. In seguito le poche presenze raccattate tra Everton, Burnley, i cinesi del Gansu Tianma e Boston United sembrarono solo l’estremo tentativo di posticipare un ritiro ormai inevitabile, coinciso con la stagione 2004-05.
Sparito dal rettangolo da gioco, Gazza continuò a essere una presenza fissa sui tabloid. Colpa dei suoi eccessi, delle incredibili dosi di alcool trangugiate (per mesi si scolò una bottiglia di whisky al giorno) e delle risse, degli incidenti di macchina e delle strisce di cocaina, dei guai con le giustizia e di terapie riabilitative che, a suo dire, lo hanno quasi spedito all’altro mondo. La sua confusione mentale era così estrema che quando il Barnsley sconfisse il Chelsea nella FA Cup del 2008 lui decise di festeggiare alla grande, per “rendere omaggio” alla sua ex squadra. Peccato che con i Tykes non avesse mai giocato e che semplicemente avesse confuso Barnsley (città dello Yorkshire) con Burnley (che si trova in Lancashire e con il cui club aveva avuto una fugace apparizione nel 2002).
Ma di storie anche meno amene ce ne sarebbero da raccontare così tante da riempire un’enciclopedia. Da questo punto di vista non aveva proprio nulla da invidiare al suo mentore Maradona, né al gruppo di giocatori talentuosi ma scavezzacollo che a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta furono bollati dalla stampa con l’appellativo di Mavericks (letteralmente, vitelli senza marchiatura). “Irregolari” che tra le loro fila ospitavano di diritto una celebrità come George Best, del quale in fatto di frequentazioni femminili e predisposizione alcolica si sa un po’ tutto. Non che i vari Stan Bowles, Rodney Marsh, Peter Osgood e Frank Worthington fossero da meno nell’approccio “molto spensierato” al football. In comune questi ultimi avevano tutti un intenso ostracismo da parte dei responsabili tecnici della nazionale inglese. Le loro presenze con la nazionale, infatti, furono scarsissime, un po’ per i loro caratteri alquanto complicati, un po’ perché espressione di un calcio fantasioso e anticonformista che in terra d’Albione non era troppo apprezzato. Lo stesso Bobby Charlton, l’ultimo campionissimo inglese prima di Gascoigne, è rinomato per la concretezza e il suo fiuto del goal, non esattamente per invenzioni degne del suo compagno di squadra dalla chioma fluente e dal tocco vellutato (Best, per l’appunto). Quanto meno Gazza con i Tre Leoni ha messo insieme 57 presenze e 10 reti e se ne fosse stato per i problemi fisici e le mattate varie di caps ne sarebbero arrivati ancora di più. Un chiaro segnale di come pian piano il football d’oltre Manica stia cambiando. Il problema è che al momento gente con la fantasia e i piedi di Gascoigne in Inghilterra non se ne trovano. L’unico che forse può essergli accostato è Wayne Rooney. Il soprannome è simile (Wazza), le marachelle non mancano (anzi), a essere differente è il rendimento in nazionale (troppi i suoi flop durante le grandi competizioni internazionali) e soprattutto un dettaglio non proprio insignificante: ad allenare il ragazzo di Croxteth è Alex Ferguson. Chi meglio di lui potrà dire se Rooney è oppure no il vero successore di Gascoigne?
Scritto per Calcio 2000 del mese scorso.
Chi però deve rimpiangere ancor di più il mancato approdo a una squadra di altissimo livello come lo United è proprio lui, quel mattacchione di Gascoigne.
Troppi gli episodi che lo hanno penalizzato, quasi tutti da imputare alla sua condotta non proprio irreprensibile, dentro ma soprattutto fuori dal campo. Eppure che fosse un predestinato si capì fin dagli esordi nel Newcastle United, la sua squadra del cuore, dove formava coppia con il brasiliano Mirandinha e deliziava le gradinate del St James’ Park con colpi di genio assoluti. Personaggio lo è stato fin dalla prima ora e gli aneddoti su di lui si sprecavano già quando vestiva la maglia bianconera. Tanto per capirci, quando i tifosi avversari gli davano del ciccione e gli tiravano le barrette di cioccolato, lui rispondeva mangiandosele!
Nel 1988 un Tottenham quanto mai ambizioso, allenato da Terry Venables e in procinto di strappare Gary Lineker al Barcellona, superò la concorrenza del Manchester United e fece sì che Gazza diventasse il primo inglese a doversi accollare l’ingombrante etichetta di giocatore da oltre due milioni di sterline. Con gli Spurs giunse la definitiva consacrazione in patria, ma a livello internazionale ci pensò Italia 90 a farlo entrare nell’esclusivo club dei fuoriclasse assoluti. Gascoigne quel torneo lo giocò da protagonista. Le sue lacrime durante la semifinale persa contro la Germania commossero il Paese, ma non bisogna scordare che il quarto posto raggiunto a quella Coppa del Mondo è tuttora il miglior risultato dei Tre Leoni a un mondiale, eccezion fatta per il trionfo del 1966. Finalmente nel firmamento delle stelle globali si poteva annoverare un calciatore inglese, che riusciva a coniugare alla perfezione estro e fantasia di stampo latino con grinta e determinazione, le caratteristiche tipiche del calcio britannico.
All’epoca la nostra bistrattata Serie A era ritenuta, a ragione, il campionato più bello e competitivo del Pianeta, la destinazione più ambita di tutti i campioni. Gazza non fece eccezione, meritandosi le attenzioni della Lazio cragnottiana. Peccato che il ragazzo, poche settimane prima di trasferirsi a Roma, nei primi minuti della finale di FA Cup contro il Nottingham pensò bene di commettere un fallo da indagine di Scotland Yard, procurandosi la rottura dei legamenti del ginocchio destro. Singolare il fatto che Gazza si accorse della reale entità del suo infortunio qualche minuto dopo essersi pure schierato in barriera e aver assistito al vantaggio del Forest…
Gli Spurs finirono per vincere quella coppa, portata di fretta e furia in ospedale dal povero Paul per rendere partecipe della festa anche lui. Quel trofeo, l’unico vinto su suolo inglese, portava anche la sua firma. Se nell’atto conclusivo era stato quanto meno sciagurato, in semifinale contro l’Arsenal aveva incantato Wembley, segnando una punizione alla Zico.
I nefasti effetti dell’entrata assassina su Gary Charles valsero a Gascoigne un anno di inattività e alla Lazio un cospicuo sconto sul contratto di acquisto dal Tottenham (da 5,5 milioni di sterline si passò a 3,5).
Con i bianco-celesti, a causa di altri problemi fisici, Gazza giocò poco, ma tutto sommato bene. Nei minuti finali di un derby segnò un goal di testa sotto la Curva Nord che accrebbe in maniera esponenziale la sua posizione di idolo assoluto della tifoseria laziale, che del nativo di Gateshead amava il genio quanto la sregolatezza – tante le sue goliardate nel periodo romano, con rutti davanti alle telecamere e vagonate di scherzi ai compagni di squadra. A metà degli anni Novanta, però, colui che Diego Armando Maradona non tanto tempo prima aveva designato come suo erede naturale si ritrovò con un fisico pieno di acciacchi (un altro infortunio molto serio lo rimediò in allenamento fratturandosi tibia e perone in un contrasto con Alessandro Nesta) e un bisogno urgente di rivitalizzare una carriera in apparente declino accasandosi ai Rangers. Una carriera purtroppo già condizionata in maniera pesante da episodi extra-calcistici (botte alla sua fidanzata e qualche ubriachezza molesta di troppo). A differenza della versione attuale, agonizzante e sull’orlo del fallimento, la compagine di Glasgow all’epoca era una delle corazzate del calcio europeo, che con Gazza si aggiudicò due dei nove campionati consecutivi fra il 1989 e il 1997. Nel mentre si ricordano altre prestazioni da incorniciare in nazionale durante l’Europeo casalingo del 1996 e un’altra delusione nella semifinale persa ancora ai rigori contro la solita Germania. La marcatura nel derby contro la Scozia – sombrero a Colin Hendry e stoccata al volo per trafiggere Andy Goram – è stato forse l’ultimo lampo di classe ad abbagliare la platea internazionale. Durante il primo Old Firm del 1998 rispose con un “gesto settario”, ovvero mimando di suonare il flauto delle marce orangiste protestanti, a una provocazione dei tifosi del Celtic. Apriti cielo. Dopo minacce di morte e reprimende della Scottish Football Association, decise lasciare Glasgow per riavvicinarsi a casa. A Middlesbrough arrivarono le ultime perle di calcio di un giocatore già assalito dai demoni dell’alcool e di chissà cos’altro, che alla notizia dell’esclusione dalla rosa dell’Inghilterra per i mondiali francesi fece a pezzi una camera d’albergo. In seguito le poche presenze raccattate tra Everton, Burnley, i cinesi del Gansu Tianma e Boston United sembrarono solo l’estremo tentativo di posticipare un ritiro ormai inevitabile, coinciso con la stagione 2004-05.
Sparito dal rettangolo da gioco, Gazza continuò a essere una presenza fissa sui tabloid. Colpa dei suoi eccessi, delle incredibili dosi di alcool trangugiate (per mesi si scolò una bottiglia di whisky al giorno) e delle risse, degli incidenti di macchina e delle strisce di cocaina, dei guai con le giustizia e di terapie riabilitative che, a suo dire, lo hanno quasi spedito all’altro mondo. La sua confusione mentale era così estrema che quando il Barnsley sconfisse il Chelsea nella FA Cup del 2008 lui decise di festeggiare alla grande, per “rendere omaggio” alla sua ex squadra. Peccato che con i Tykes non avesse mai giocato e che semplicemente avesse confuso Barnsley (città dello Yorkshire) con Burnley (che si trova in Lancashire e con il cui club aveva avuto una fugace apparizione nel 2002).
Ma di storie anche meno amene ce ne sarebbero da raccontare così tante da riempire un’enciclopedia. Da questo punto di vista non aveva proprio nulla da invidiare al suo mentore Maradona, né al gruppo di giocatori talentuosi ma scavezzacollo che a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta furono bollati dalla stampa con l’appellativo di Mavericks (letteralmente, vitelli senza marchiatura). “Irregolari” che tra le loro fila ospitavano di diritto una celebrità come George Best, del quale in fatto di frequentazioni femminili e predisposizione alcolica si sa un po’ tutto. Non che i vari Stan Bowles, Rodney Marsh, Peter Osgood e Frank Worthington fossero da meno nell’approccio “molto spensierato” al football. In comune questi ultimi avevano tutti un intenso ostracismo da parte dei responsabili tecnici della nazionale inglese. Le loro presenze con la nazionale, infatti, furono scarsissime, un po’ per i loro caratteri alquanto complicati, un po’ perché espressione di un calcio fantasioso e anticonformista che in terra d’Albione non era troppo apprezzato. Lo stesso Bobby Charlton, l’ultimo campionissimo inglese prima di Gascoigne, è rinomato per la concretezza e il suo fiuto del goal, non esattamente per invenzioni degne del suo compagno di squadra dalla chioma fluente e dal tocco vellutato (Best, per l’appunto). Quanto meno Gazza con i Tre Leoni ha messo insieme 57 presenze e 10 reti e se ne fosse stato per i problemi fisici e le mattate varie di caps ne sarebbero arrivati ancora di più. Un chiaro segnale di come pian piano il football d’oltre Manica stia cambiando. Il problema è che al momento gente con la fantasia e i piedi di Gascoigne in Inghilterra non se ne trovano. L’unico che forse può essergli accostato è Wayne Rooney. Il soprannome è simile (Wazza), le marachelle non mancano (anzi), a essere differente è il rendimento in nazionale (troppi i suoi flop durante le grandi competizioni internazionali) e soprattutto un dettaglio non proprio insignificante: ad allenare il ragazzo di Croxteth è Alex Ferguson. Chi meglio di lui potrà dire se Rooney è oppure no il vero successore di Gascoigne?
Scritto per Calcio 2000 del mese scorso.
domenica 13 maggio 2012
ll Punto sulla Premier – City, un'attesa durata 44 anni
I Light Blues ritornano sul trono di campioni d'Inghilterra, ma che fatica e, soprattutto, quante emozioni! Il Manchester United finisce la stagione con un solo trofeo (il Community Shield) e una sfilza di delusioni. Il Bolton Wanderers retrocede in Championship dopo undici stagioni consecutive in Premier.
COS'E' SUCCESSO – Ci sarà anche stato un livellamento verso il basso in termini di qualità, ma la quantità di emozioni che ha proposto la Premier edizione 2011-12 ben difficilmente potrà essere eguagliata da altri campionati in giro per l'orbe terracqueo. Il Manchester City sembrava a un passo dall'ennesimo harakiri di una storia punteggiata da troppi episodi negativi, quando il negletto Edin Dzeko (giusto che sia stato lui a segnare il 2-2 e non il “mercenario” Carlos Tevez) e lo splendido Kun Aguero (23 goal nella sua prima stagione inglese) hanno fatto impazzire l'Etihad. Onore delle armi allo United, 1-0 a Sunderland con il ventisettesimo centro in campionato di Wayne Rooney, a tre lunghezze dal capocannoniere Robin Van Persie. Mai una squadra aveva raggiunto la soglia degli 89 punti senza vincere il titolo – perso per la prima volta nella storia della Premier per differenza reti. Grazie alle topiche del portiere di riserva del WBA, Martin Fulop, l'Arsenal centra la qualificazione diretta in Champions League, nonostante alcuni momenti di crisi profonda abbiano segnato il cammino dei ragazzi di Arsene Wenger durante la campagna appena conclusasi. Quarto posto per il Tottenham, che ora dovrà tifare Bayern Monaco (non che i tifosi degli Spurs avrebbero sostenuto gli “odiati” Blues) per riuscire a giocare i preliminari del più importante torneo continentale. Torna in Europa il Newcastle, sconfitto però al Goodison Park dall'Everton, che così per la prima volta dal 2004-05 finisce il campionato davanti al Liverpool. Sebbene sconfitto a Manchester, si salva il QPR, che riesce lo stesso a mantenere un punto di vantaggio sul Bolton (2-2 a Stoke). Ci dispiace per Owen Coyle, un tecnico di cui però siamo sicuri sentiremo ancora parlare.
IL TOP – Sergio “El Kun” Aguero ha segnato una rete destinata a entrare di diritto nella storia del calcio inglese, in un finale thriller degno del famoso goal nei secondi di recupero del Liverpool-Arsenal 0-2 immortalato da Nick Hornby nel suo Fever Pitch. Già prima era un eroe della tifoseria dei Citizens, figuriamoci adesso!
IL FLOP – Concordiamo al 99 per cento con le parole molto dure espresse nei confronti di Joey Barton (espulso per un fallo di reazione su Tevez e poi protagonista di un calcione criminale nei confronti di Aguero) dal grande Massimo Marianella durante la telecronaca di Manchester City-QPR. Però uno che ne ha sempre combinate di tutti i colori e che a Eastlands, nonostante i gradi di capitano, ha rischiato di far precipitare in Championship la sua squadra non solo non deve giocare più in Premier, per quel che ci riguarda non deve proprio più mettere piede su un terreno di gioco inglese. Di qualsiasi categoria.
LA SORPRESA – Almeno in campionato, il Chelsea è stata la classica sorpresa in negativo. Era dal 2001-02 che i Blues non si piazzavano così male in Premier e francamente quasi nessuno lo avrebbe pronosticato a inizio stagione. E se non dovesse arrivare il trionfo in Champions League per l'anno prossimo Roman Abramovich si dovrà accontentare di ascoltare il misconosciuto inno dell'Europa League.
TOH CHI SI RIVEDE – Jermain Defoe è il primo giocatore nella storia della Premier a segnare 20 goal partendo dalla panchina. Ogni tanto si perdono le sue tracce, poi lui entra in campo e fa subito centro. Quando si dice la classe.
LA CHICCA – Quello costato la permanenza in Premier al povero Bolton è stato il centesimo rigore accordato quest'anno in campionato. Purtroppo per i Trotters passerà agli annali come il settantaduesimo a essere stato realizzato.
CONSIGLI PER GLI ACQUISTI – Chiudiamo l'ultimo punto sulla Premier 2011-12 con il suggerimento più scontato possibile: Robin Van Persie. L'attaccante dell'Arsenal, oltre a laurearsi capocannoniere, ha fatto incetta di premi: sia per i suoi colleghi che per la stampa specializzata è stato lui il miglior giocatore dell'anno. Dopo i trofei individuali, è arrivato il tempo di vincere qualche campionato o qualche coppa. In Inghilterra oppure altrove?
COS'E' SUCCESSO – Ci sarà anche stato un livellamento verso il basso in termini di qualità, ma la quantità di emozioni che ha proposto la Premier edizione 2011-12 ben difficilmente potrà essere eguagliata da altri campionati in giro per l'orbe terracqueo. Il Manchester City sembrava a un passo dall'ennesimo harakiri di una storia punteggiata da troppi episodi negativi, quando il negletto Edin Dzeko (giusto che sia stato lui a segnare il 2-2 e non il “mercenario” Carlos Tevez) e lo splendido Kun Aguero (23 goal nella sua prima stagione inglese) hanno fatto impazzire l'Etihad. Onore delle armi allo United, 1-0 a Sunderland con il ventisettesimo centro in campionato di Wayne Rooney, a tre lunghezze dal capocannoniere Robin Van Persie. Mai una squadra aveva raggiunto la soglia degli 89 punti senza vincere il titolo – perso per la prima volta nella storia della Premier per differenza reti. Grazie alle topiche del portiere di riserva del WBA, Martin Fulop, l'Arsenal centra la qualificazione diretta in Champions League, nonostante alcuni momenti di crisi profonda abbiano segnato il cammino dei ragazzi di Arsene Wenger durante la campagna appena conclusasi. Quarto posto per il Tottenham, che ora dovrà tifare Bayern Monaco (non che i tifosi degli Spurs avrebbero sostenuto gli “odiati” Blues) per riuscire a giocare i preliminari del più importante torneo continentale. Torna in Europa il Newcastle, sconfitto però al Goodison Park dall'Everton, che così per la prima volta dal 2004-05 finisce il campionato davanti al Liverpool. Sebbene sconfitto a Manchester, si salva il QPR, che riesce lo stesso a mantenere un punto di vantaggio sul Bolton (2-2 a Stoke). Ci dispiace per Owen Coyle, un tecnico di cui però siamo sicuri sentiremo ancora parlare.
IL TOP – Sergio “El Kun” Aguero ha segnato una rete destinata a entrare di diritto nella storia del calcio inglese, in un finale thriller degno del famoso goal nei secondi di recupero del Liverpool-Arsenal 0-2 immortalato da Nick Hornby nel suo Fever Pitch. Già prima era un eroe della tifoseria dei Citizens, figuriamoci adesso!
IL FLOP – Concordiamo al 99 per cento con le parole molto dure espresse nei confronti di Joey Barton (espulso per un fallo di reazione su Tevez e poi protagonista di un calcione criminale nei confronti di Aguero) dal grande Massimo Marianella durante la telecronaca di Manchester City-QPR. Però uno che ne ha sempre combinate di tutti i colori e che a Eastlands, nonostante i gradi di capitano, ha rischiato di far precipitare in Championship la sua squadra non solo non deve giocare più in Premier, per quel che ci riguarda non deve proprio più mettere piede su un terreno di gioco inglese. Di qualsiasi categoria.
LA SORPRESA – Almeno in campionato, il Chelsea è stata la classica sorpresa in negativo. Era dal 2001-02 che i Blues non si piazzavano così male in Premier e francamente quasi nessuno lo avrebbe pronosticato a inizio stagione. E se non dovesse arrivare il trionfo in Champions League per l'anno prossimo Roman Abramovich si dovrà accontentare di ascoltare il misconosciuto inno dell'Europa League.
TOH CHI SI RIVEDE – Jermain Defoe è il primo giocatore nella storia della Premier a segnare 20 goal partendo dalla panchina. Ogni tanto si perdono le sue tracce, poi lui entra in campo e fa subito centro. Quando si dice la classe.
LA CHICCA – Quello costato la permanenza in Premier al povero Bolton è stato il centesimo rigore accordato quest'anno in campionato. Purtroppo per i Trotters passerà agli annali come il settantaduesimo a essere stato realizzato.
CONSIGLI PER GLI ACQUISTI – Chiudiamo l'ultimo punto sulla Premier 2011-12 con il suggerimento più scontato possibile: Robin Van Persie. L'attaccante dell'Arsenal, oltre a laurearsi capocannoniere, ha fatto incetta di premi: sia per i suoi colleghi che per la stampa specializzata è stato lui il miglior giocatore dell'anno. Dopo i trofei individuali, è arrivato il tempo di vincere qualche campionato o qualche coppa. In Inghilterra oppure altrove?
sabato 12 maggio 2012
Franchise F.C. v Huddersfield 0-2
Anche quest'anno la corsa di quei "simpaticoni" che rispondono al nome di MK Dons si dovrebbe fermare a livello di semifinale dei play offs. Salvo sorprese al ritorno, quella che la maggior parte dei tifosi inglesi chiama con disprezzo la "franchigia" almeno in Championship non farà la sua apparizione per almeno un'altra stagione. Grazie Terriers!
venerdì 11 maggio 2012
Salvate il soldato Hodgson
Chi dovesse succedere a Fabio Capello alla guida della nazionale inglese è sembrato a lungo il classico segreto di Pulcinella. Una volta liberatosi del peso delle accuse di evasione fiscale, il manager del Tottenham Harry Redknapp era accreditato come il candidato unico per la panchina dei Tre Leoni. E invece ecco materializzarsi la doppia beffa, per il buon Harry, ma anche per gli Spurs. Questi ultimi, probabilmente per il contraccolpo dovuto alla possibile perdita del loro tecnico, hanno lasciato per strada preziosi punti per la corsa alla Champions League, Redknapp si è ritrovato con in mano un pugno di mosche, visto che la suo posto è stato nominato Roy Hodgson. Non crediamo di andare troppo lontano dalla realtà se ipotizziamo che questo cambio di rotta sia stato motivato dal cospicuo indennizzo – si parla di oltre 10 milioni di euro – che la Football Association avrebbe dovuto pagare al Tottenham per “soffiargli” il suo allenatore.
Buona parte della stampa inglese ha preso molto male la scelta dei vertici dell'associazione, con il tabloid The Sun in prima fila a pubblicare una delle sue front page al curaro. Ma siamo poi così sicuri che Redknapp sarebbe stato veramente il salvatore della Patria? O meglio, che Hodgson farà più danni della grandine? Facciamo una premessa: l'attuale manager del Tottenham è da sempre uno dei personaggi preferiti, dei “cocchi” dei media britannici. Quasi mai è stato criticato con grande virulenza per qualche match sbagliato, mentre Hodgson è finito nell'occhio del ciclone per il suo periodo non eccelso al Liverpool. “Non può guidare una squadra di altro profilo” era il commento ricorrente rivolto nei confronti di Mister Roy. Eppure, come sappiamo bene anche noi italiani, la sua esperienza internazionale non si discute. Oltre ad aver allenato club in Svezia, Italia, Svizzera e Danimarca, ha riportato la nazionale rosso-crociata ai mondiali dopo un'assenza di 30 anni e pure con la selezione finlandese se l'è cavata abbastanza bene. Le sue conoscenze tattiche non sono da disprezzare, forse anche più evolute di quelle di Redknapp che pure – gli va riconosciuto – ha saputo assicurare al Tottenham un qualità del gioco di buon livello.
Insomma, come ha ironicamente evidenziato il mensile When Saturday Comes sulla copertina dell'ultimo numero, per una volta la FA avrebbe operato la scelta giusta, quasi in maniera involontaria. Ma forse è ancora più condivisibile quanto scrive proprio il direttore di When Saturday Comes Mike Lyons nel suo editoriale d'apertura al giornale, facendone più una questione di giocatori non all'altezza che di allenatori scarsi se l'Inghilterra non vince nulla dal 1966. Secondo noi i vari Gerrard, Lampard e Rooney sono tutt'altro che cattivi calciatori, ma è indubbio che in nazionale quanto meno la loro tenuta mentale non sia adeguata.
In attesa delle sue scelte in qualità di selezionatore della rosa per Euro 2012, a Hodgson spetta risolvere la prima questione altamente spinosa della sua carriera da CT del suo Paese: il tormentone su a chi affidare la fascia da capitano. Francamente non vorremmo essere nei suoi panni, specialmente perché è probabile che qualsiasi decisione prenda non sarà accolta con troppo entusiasmo dai media. In bocca al lupo, Mister Roy!
Buona parte della stampa inglese ha preso molto male la scelta dei vertici dell'associazione, con il tabloid The Sun in prima fila a pubblicare una delle sue front page al curaro. Ma siamo poi così sicuri che Redknapp sarebbe stato veramente il salvatore della Patria? O meglio, che Hodgson farà più danni della grandine? Facciamo una premessa: l'attuale manager del Tottenham è da sempre uno dei personaggi preferiti, dei “cocchi” dei media britannici. Quasi mai è stato criticato con grande virulenza per qualche match sbagliato, mentre Hodgson è finito nell'occhio del ciclone per il suo periodo non eccelso al Liverpool. “Non può guidare una squadra di altro profilo” era il commento ricorrente rivolto nei confronti di Mister Roy. Eppure, come sappiamo bene anche noi italiani, la sua esperienza internazionale non si discute. Oltre ad aver allenato club in Svezia, Italia, Svizzera e Danimarca, ha riportato la nazionale rosso-crociata ai mondiali dopo un'assenza di 30 anni e pure con la selezione finlandese se l'è cavata abbastanza bene. Le sue conoscenze tattiche non sono da disprezzare, forse anche più evolute di quelle di Redknapp che pure – gli va riconosciuto – ha saputo assicurare al Tottenham un qualità del gioco di buon livello.
Insomma, come ha ironicamente evidenziato il mensile When Saturday Comes sulla copertina dell'ultimo numero, per una volta la FA avrebbe operato la scelta giusta, quasi in maniera involontaria. Ma forse è ancora più condivisibile quanto scrive proprio il direttore di When Saturday Comes Mike Lyons nel suo editoriale d'apertura al giornale, facendone più una questione di giocatori non all'altezza che di allenatori scarsi se l'Inghilterra non vince nulla dal 1966. Secondo noi i vari Gerrard, Lampard e Rooney sono tutt'altro che cattivi calciatori, ma è indubbio che in nazionale quanto meno la loro tenuta mentale non sia adeguata.
In attesa delle sue scelte in qualità di selezionatore della rosa per Euro 2012, a Hodgson spetta risolvere la prima questione altamente spinosa della sua carriera da CT del suo Paese: il tormentone su a chi affidare la fascia da capitano. Francamente non vorremmo essere nei suoi panni, specialmente perché è probabile che qualsiasi decisione prenda non sarà accolta con troppo entusiasmo dai media. In bocca al lupo, Mister Roy!
martedì 8 maggio 2012
Punto Premier - City, il titolo a un passo
La bella vittoria a Newcastle avvicina moltissimo la Premier ai Light Blues. Lo United passa con lo Swansea, ma senza goleada. La differenza reti ormai arride ai ragazzi di Mancini.
Nella lotta per il terzo posto frenano tutte. L’Arsenal è ancora il favorito per la qualificazione diretta in Champions League. Retrocede il Blackburn, apparso tra le squadre più deboli del campionato fin dallo scorso agosto.
COS'E' SUCCESSO – Un mese fa sembrava impossibile. Ora invece il Manchester City può veramente laurearsi campione d’Inghilterra per la terza volta nella sua storia ultracentenaria. Dopo l’affermazione in casa del Newcastle – frutto di tanta pazienza e determinazione – ai Light Blues non “rimane” che battere il pericolante QPR in casa e soprattutto il tabù dell’ultima giornata (nei 14 precedenti match conclusivi della stagione ne ha vinti solo tre). I rivali cittadini dello United hanno sì sconfitto lo Swansea, ma non essendo riusciti a travolgere i gallesi non possono più sperare di ribaltare la differenza reti (lì, a differenza dei punti, sono a meno otto dal City), a meno di clamorosi e francamente inattesi sviluppi della gara con il Sunderland. Detto della sconfitta del Newcastle, ormai quasi tagliato fuori dalla corsa a un posto nell'Europa che conta, solo pareggi per Arsenal (spettacolare 3-3 con il Norwich) e Tottenham (1-1 al Villa Park, con l'Aston Villa così salvo). Nell'immediato replay della finale di FA Cup il Liverpool umilia il Chelsea, superandolo per la quarta volta consecutiva in campionato. Magra consolazione, visto il risultato di sabato scorso. Tempo di verdetti in coda. Cedendo in casa con il Wigan (per i Latics 18 punti nelle ultime otto partite) il Blackburn torna in Championship dopo 11 campionati consecutivi nella massima divisione inglese. Fortemente indiziato a seguire i Rovers il Bolton, solo 2-2 in casa con il WBA, mentre il QPR vincendo con lo Stoke per il momento si chiama fuori dalle ultime tre. Ma domenica è atteso a Eastlands dall'incontro più importante dell'anno, vero crocevia per il titolo e la lotta per non retrocedere.
IL TOP – Da quando Mancini lo ha arretrato per giocare con le due punte, Yaya Tourè ha avuto meno opportunità di trovare la via del goal. Però, come nella finale di FA Cup dello scorso anno, quando servono le marcature di peso specifico molto elevato lui non si tira mai indietro. Affermare che domenica a Newcastle è stato decisivo sembra quasi riduttivo…
IL FLOP – Sul più bello – il vantaggio di due reti – il Bolton ha fatto harakiri, facendosi riacciuffare da un West Bromwich Albion che non aveva troppi vincoli di classifica. Un mezzo passo falso che potrebbe costare molto caro ai Trotters.
LA SORPRESA – A giudicare dalle ultime partite, sembrava che ormai il Norwich fosse andato in vacanza, cullandosi sull’impresa della salvezza ottenuta in largo anticipo. E invece i Canaries si sono presentati all’Emirates con il piglio giusto, tanto che il 3-3 finale sta quasi più stretto a loro che all’Arsenal.
TOH CHI SI RIVEDE – Lo abbiamo bacchettato spesso per le sue sciocche espulsioni e per prestazioni fin troppo scialbe. Djibril Cissé ha trovato il modo di riabilitarsi con la sua fondamentale marcatura nei minuti finali contro lo Stoke City, che potrebbe valere la permanenza in Premier per il QPR.
LA CHICCA – Era dal 1978-79 che il Blackburn non finiva la stagione con meno di 35 punti. Scontata, quindi la retrocessione, nonostante i 16 goal di Yakubu. Un dato impressionante, se si pensa che dal 2004-05 un giocatore di una squadra finita nella divisione inferiore non faceva registrare così tante marcature (in quel caso si fece “inutilmente valere” Andy Johnson del Crystal Palace).
CONSIGLI PER GLI ACQUISTI – Avviso ai naviganti, il terzino del Tottenham Benoit Essou-Ekotto avrebbe manifestato la seria intenzione di lasciare White Hart Lane. Visto il suo crescente rendimento nelle ultime stagioni di Premier, può stimolare l'interesse di molto squadre di alto livello. La sensazione è che se gli Spurs non dovessero centrare la qualificazione in Champions League non sarà l'unico a chiedere di essere ceduto.
Nella lotta per il terzo posto frenano tutte. L’Arsenal è ancora il favorito per la qualificazione diretta in Champions League. Retrocede il Blackburn, apparso tra le squadre più deboli del campionato fin dallo scorso agosto.
COS'E' SUCCESSO – Un mese fa sembrava impossibile. Ora invece il Manchester City può veramente laurearsi campione d’Inghilterra per la terza volta nella sua storia ultracentenaria. Dopo l’affermazione in casa del Newcastle – frutto di tanta pazienza e determinazione – ai Light Blues non “rimane” che battere il pericolante QPR in casa e soprattutto il tabù dell’ultima giornata (nei 14 precedenti match conclusivi della stagione ne ha vinti solo tre). I rivali cittadini dello United hanno sì sconfitto lo Swansea, ma non essendo riusciti a travolgere i gallesi non possono più sperare di ribaltare la differenza reti (lì, a differenza dei punti, sono a meno otto dal City), a meno di clamorosi e francamente inattesi sviluppi della gara con il Sunderland. Detto della sconfitta del Newcastle, ormai quasi tagliato fuori dalla corsa a un posto nell'Europa che conta, solo pareggi per Arsenal (spettacolare 3-3 con il Norwich) e Tottenham (1-1 al Villa Park, con l'Aston Villa così salvo). Nell'immediato replay della finale di FA Cup il Liverpool umilia il Chelsea, superandolo per la quarta volta consecutiva in campionato. Magra consolazione, visto il risultato di sabato scorso. Tempo di verdetti in coda. Cedendo in casa con il Wigan (per i Latics 18 punti nelle ultime otto partite) il Blackburn torna in Championship dopo 11 campionati consecutivi nella massima divisione inglese. Fortemente indiziato a seguire i Rovers il Bolton, solo 2-2 in casa con il WBA, mentre il QPR vincendo con lo Stoke per il momento si chiama fuori dalle ultime tre. Ma domenica è atteso a Eastlands dall'incontro più importante dell'anno, vero crocevia per il titolo e la lotta per non retrocedere.
IL TOP – Da quando Mancini lo ha arretrato per giocare con le due punte, Yaya Tourè ha avuto meno opportunità di trovare la via del goal. Però, come nella finale di FA Cup dello scorso anno, quando servono le marcature di peso specifico molto elevato lui non si tira mai indietro. Affermare che domenica a Newcastle è stato decisivo sembra quasi riduttivo…
IL FLOP – Sul più bello – il vantaggio di due reti – il Bolton ha fatto harakiri, facendosi riacciuffare da un West Bromwich Albion che non aveva troppi vincoli di classifica. Un mezzo passo falso che potrebbe costare molto caro ai Trotters.
LA SORPRESA – A giudicare dalle ultime partite, sembrava che ormai il Norwich fosse andato in vacanza, cullandosi sull’impresa della salvezza ottenuta in largo anticipo. E invece i Canaries si sono presentati all’Emirates con il piglio giusto, tanto che il 3-3 finale sta quasi più stretto a loro che all’Arsenal.
TOH CHI SI RIVEDE – Lo abbiamo bacchettato spesso per le sue sciocche espulsioni e per prestazioni fin troppo scialbe. Djibril Cissé ha trovato il modo di riabilitarsi con la sua fondamentale marcatura nei minuti finali contro lo Stoke City, che potrebbe valere la permanenza in Premier per il QPR.
LA CHICCA – Era dal 1978-79 che il Blackburn non finiva la stagione con meno di 35 punti. Scontata, quindi la retrocessione, nonostante i 16 goal di Yakubu. Un dato impressionante, se si pensa che dal 2004-05 un giocatore di una squadra finita nella divisione inferiore non faceva registrare così tante marcature (in quel caso si fece “inutilmente valere” Andy Johnson del Crystal Palace).
CONSIGLI PER GLI ACQUISTI – Avviso ai naviganti, il terzino del Tottenham Benoit Essou-Ekotto avrebbe manifestato la seria intenzione di lasciare White Hart Lane. Visto il suo crescente rendimento nelle ultime stagioni di Premier, può stimolare l'interesse di molto squadre di alto livello. La sensazione è che se gli Spurs non dovessero centrare la qualificazione in Champions League non sarà l'unico a chiedere di essere ceduto.
domenica 6 maggio 2012
La settima perla del Chelsea
Premessa: ho potuto vedere la partita solo in registrata, non in diretta, causa festa di un'amica dei miei figli. Tutto sommato una delle migliori finali degli ultimi anni, un pizzico meno emozionante di Liverpool v West Ham del 2006 ma sicuramente superiore dal punto di vista tecnico. E poi rimarrà nella storia per l'ottavo goal di Didier Drogba, la settima vittoria di Ashley Cole e il goal-non goal di Andy Carroll (secondo me era dentro). Insomma, un FA Cup final da ricordare.
venerdì 4 maggio 2012
C'era una volta la FA Cup
Questo esce domani su Alias (l'inserto del sabato del Manifesto).
C'era una volta la finale di FA Cup. C'era una volta un evento che catalizzava l'attenzione di una intera nazione, perché rappresentava la partita più importante e attesa dell'anno. C'era una volta una competizione che per il suo atto conclusivo proponeva una piacevole alternanza di team, con le sorprese sempre a fare capolino, creando leggende calcistiche di cui si parla ancora dopo decenni. Ora tanto, verrebbe da dire troppo, è cambiato. La coppa più antica del mondo – è nata nel 1871 – è ormai stata relegata nelle retrovie delle gerarchie calcistiche dalla Premiership e dalla Champions League, espressioni principe del cosiddetto corporate football. Non a caso l'inizio della decadenza è coinciso con la stagione 1996-97, allorché fu assicurata la qualificazione nel massimo torneo continentale anche alla seconda classificata in campionato, che così incrementò ulteriormente la sua importanza. Un altro segnale inquietante ma allo stesso tempo molto sintomatico fu l'auto-esclusione del Manchester United dall'edizione 1999-2000 per partecipare a uno dei tornei più insulsi della storia del calcio – il Fifa Club World Championship tenutosi a Rio De Janeiro. I puristi del Beautiful Game iniziarono a sudare freddo, ben consci che difficilmente si sarebbe invertita questa inquietante tendenza.
Ormai l'atto finale della FA Cup se lo disputano le solite note – non a caso quest'anno si incontrano Chelsea e Liverpool – con l'unica eccezione che conferma la regola della finale del 2008. Ovvero quando l'indebitatissimo Portsmouth (appena retrocesso in terza serie), allora allenato da Harry Redknapp, ebbe la meglio sul piccolo Cardiff City (squadra di quella che una volta si chiamava Seconda Divisione) con un goal dell'ex interista Nwankwo Kanu.
Già allora si giocava sotto l'arco. Non più all'ombra delle due torri del vecchio Wembley, il tempio indiscusso del calcio mondiale tra il 1923 e il 2000, inaugurato proprio in occasione di una finale di coppa tra Bolton Wanderers e West Ham e già entrato nella leggenda con quella primissima partita. Si giocò con la gente accalcata ai bordi del campo. Forse nell'immensa arena erano riuscite a entrare fino a 250mila persone, ma anche fuori la marea umana era tale che i giocatori del Bolton si fecero a piedi le ultime due miglia di tragitto. La Metropolitan Police dovette fronteggiare una situazione di estrema emergenza, un vero incubo dal punto di vista dell'ordine pubblico. I feriti furono più di mille, ma fortunatamente nessuno perse la vita. Merito del poliziotto George Scorey e del suo cavallo Billy, tra i più attivi a sgombrare il manto erboso e a tenere a bada la folla. Ma il contesto a dir poco “singolare” fece sì che i giocatori non poterono rientrare negli spogliatoi nell'intervallo e, si mormora, il Bolton riuscì a segnare il secondo goal sebbene la palla fosse uscita. L'arbitro non si accorse – o preferì non accorgersi – che a toccare la sfera fosse stato un tifoso a bordo campo. Quella gara sarà ricordata per sempre come la “White Horse Final”, in omaggio a Billy.
Tornando al presente, va detto che anche l'orario, almeno per l'edizione di quest'anno, è cambiato. Le ore tre locali (quattro da noi) sono state abbandonate per fare un favore alle televisioni – sai che novità... – e non è detto che le cinque e un quarto non possano diventare la regola. Certo, pure nel 1873 si posticipò l'inizio della sfida, ma solo perché numerosi membri delle due squadre (Wanderers e Oxford University) avevano studiato presso le università di Oxford e Cambridge e si volevano godere l'annuale sfida di canottaggio sul Tamigi tra i due armi.
Altri tempi; allora regnava il dilettantismo un po' snobistico dei ricchi figli di papà, che avrebbe ben presto lasciato strada al professionismo targato working class della fine del Diciannovesimo Secolo. Già, la classe operaia. Per decenni la distanza in termini sociali e di reddito tra giocatori e tifosi è rimasta molto contenuta – in verità anche perché fino al 1964 era esistito un tetto salariale molto rigido. Fin verso gli anni Settanta era consuetudine un po' per tutti avere anche un'altra occupazione, soprattutto a inizio carriera. La giovane promessa poteva così tutelarsi in caso di scarso successo nel mondo del calcio, ma anche apprendere un mestiere per quando avrebbe appeso gli scarpini al chiodo. Il soprannome di Tom Finney, uno dei migliori giocatori inglesi del secondo dopoguerra, era “l'idraulico di Preston” non per caso. Mentre segnava goal a grappoli, Jimmy Greaves (nel 1961 visto di sfuggita anche in Italia con la maglia del Milan) gestiva una piccola impresa di sgombero cantine...
C'è un brano di un'intervista di Franck McLintock che rende perfettamente l'idea del tipo di vita che conducevano i calciatori di quei tempi, riportandoci inoltre all'atmosfera della finali di Coppa pre-corporate football. Prima di diventare una bandiera dell'Arsenal negli anni Settanta, il difensore scozzese si era messo in evidenza nelle fila del Leicester City. Nel 1961 la sua squadra sfruttò al meglio la presenza tra i pali di Gordon Banks, uno dei migliori portieri di tutti i tempi, per arrivare a giocarsi la FA Cup contro il celestiale Tottenham di Billy Nicholson (poi vincitore con un classico 2-0).
“Ogni mattina mi svegliavo alle 6.30, prendevo la bicicletta e andavo a lavorare. Facevo l'apprendista pittore e decoratore. Poi ovviamente c'erano gli allenamenti. Il venerdì prima della finale ho seguito la stessa routine. Finito di lavorare sono tornato a casa, mi sono rasato e ho fatto una bella doccia per poi raggiungere Filbert Street (lo stadio del Leicester dal 1891 al 2002). Lì mi attendeva il pullman della squadra diretto a Londra. Nella capitale abbiamo soggiornato al Dorchester Hotel, dove ho avuto il piacere di incontrare Elisabeth Taylor e Richard Burton. Il sabato ho giocato a Wembley, di fronte a 100mila persone. Il lunedì ero di nuovo a lavoro, come se nulla fosse. Vi immaginate uno come David Beckham fare lo stesso? No, vero?”.
C'era una volta la finale di FA Cup. C'era una volta un evento che catalizzava l'attenzione di una intera nazione, perché rappresentava la partita più importante e attesa dell'anno. C'era una volta una competizione che per il suo atto conclusivo proponeva una piacevole alternanza di team, con le sorprese sempre a fare capolino, creando leggende calcistiche di cui si parla ancora dopo decenni. Ora tanto, verrebbe da dire troppo, è cambiato. La coppa più antica del mondo – è nata nel 1871 – è ormai stata relegata nelle retrovie delle gerarchie calcistiche dalla Premiership e dalla Champions League, espressioni principe del cosiddetto corporate football. Non a caso l'inizio della decadenza è coinciso con la stagione 1996-97, allorché fu assicurata la qualificazione nel massimo torneo continentale anche alla seconda classificata in campionato, che così incrementò ulteriormente la sua importanza. Un altro segnale inquietante ma allo stesso tempo molto sintomatico fu l'auto-esclusione del Manchester United dall'edizione 1999-2000 per partecipare a uno dei tornei più insulsi della storia del calcio – il Fifa Club World Championship tenutosi a Rio De Janeiro. I puristi del Beautiful Game iniziarono a sudare freddo, ben consci che difficilmente si sarebbe invertita questa inquietante tendenza.
Ormai l'atto finale della FA Cup se lo disputano le solite note – non a caso quest'anno si incontrano Chelsea e Liverpool – con l'unica eccezione che conferma la regola della finale del 2008. Ovvero quando l'indebitatissimo Portsmouth (appena retrocesso in terza serie), allora allenato da Harry Redknapp, ebbe la meglio sul piccolo Cardiff City (squadra di quella che una volta si chiamava Seconda Divisione) con un goal dell'ex interista Nwankwo Kanu.
Già allora si giocava sotto l'arco. Non più all'ombra delle due torri del vecchio Wembley, il tempio indiscusso del calcio mondiale tra il 1923 e il 2000, inaugurato proprio in occasione di una finale di coppa tra Bolton Wanderers e West Ham e già entrato nella leggenda con quella primissima partita. Si giocò con la gente accalcata ai bordi del campo. Forse nell'immensa arena erano riuscite a entrare fino a 250mila persone, ma anche fuori la marea umana era tale che i giocatori del Bolton si fecero a piedi le ultime due miglia di tragitto. La Metropolitan Police dovette fronteggiare una situazione di estrema emergenza, un vero incubo dal punto di vista dell'ordine pubblico. I feriti furono più di mille, ma fortunatamente nessuno perse la vita. Merito del poliziotto George Scorey e del suo cavallo Billy, tra i più attivi a sgombrare il manto erboso e a tenere a bada la folla. Ma il contesto a dir poco “singolare” fece sì che i giocatori non poterono rientrare negli spogliatoi nell'intervallo e, si mormora, il Bolton riuscì a segnare il secondo goal sebbene la palla fosse uscita. L'arbitro non si accorse – o preferì non accorgersi – che a toccare la sfera fosse stato un tifoso a bordo campo. Quella gara sarà ricordata per sempre come la “White Horse Final”, in omaggio a Billy.
Tornando al presente, va detto che anche l'orario, almeno per l'edizione di quest'anno, è cambiato. Le ore tre locali (quattro da noi) sono state abbandonate per fare un favore alle televisioni – sai che novità... – e non è detto che le cinque e un quarto non possano diventare la regola. Certo, pure nel 1873 si posticipò l'inizio della sfida, ma solo perché numerosi membri delle due squadre (Wanderers e Oxford University) avevano studiato presso le università di Oxford e Cambridge e si volevano godere l'annuale sfida di canottaggio sul Tamigi tra i due armi.
Altri tempi; allora regnava il dilettantismo un po' snobistico dei ricchi figli di papà, che avrebbe ben presto lasciato strada al professionismo targato working class della fine del Diciannovesimo Secolo. Già, la classe operaia. Per decenni la distanza in termini sociali e di reddito tra giocatori e tifosi è rimasta molto contenuta – in verità anche perché fino al 1964 era esistito un tetto salariale molto rigido. Fin verso gli anni Settanta era consuetudine un po' per tutti avere anche un'altra occupazione, soprattutto a inizio carriera. La giovane promessa poteva così tutelarsi in caso di scarso successo nel mondo del calcio, ma anche apprendere un mestiere per quando avrebbe appeso gli scarpini al chiodo. Il soprannome di Tom Finney, uno dei migliori giocatori inglesi del secondo dopoguerra, era “l'idraulico di Preston” non per caso. Mentre segnava goal a grappoli, Jimmy Greaves (nel 1961 visto di sfuggita anche in Italia con la maglia del Milan) gestiva una piccola impresa di sgombero cantine...
C'è un brano di un'intervista di Franck McLintock che rende perfettamente l'idea del tipo di vita che conducevano i calciatori di quei tempi, riportandoci inoltre all'atmosfera della finali di Coppa pre-corporate football. Prima di diventare una bandiera dell'Arsenal negli anni Settanta, il difensore scozzese si era messo in evidenza nelle fila del Leicester City. Nel 1961 la sua squadra sfruttò al meglio la presenza tra i pali di Gordon Banks, uno dei migliori portieri di tutti i tempi, per arrivare a giocarsi la FA Cup contro il celestiale Tottenham di Billy Nicholson (poi vincitore con un classico 2-0).
“Ogni mattina mi svegliavo alle 6.30, prendevo la bicicletta e andavo a lavorare. Facevo l'apprendista pittore e decoratore. Poi ovviamente c'erano gli allenamenti. Il venerdì prima della finale ho seguito la stessa routine. Finito di lavorare sono tornato a casa, mi sono rasato e ho fatto una bella doccia per poi raggiungere Filbert Street (lo stadio del Leicester dal 1891 al 2002). Lì mi attendeva il pullman della squadra diretto a Londra. Nella capitale abbiamo soggiornato al Dorchester Hotel, dove ho avuto il piacere di incontrare Elisabeth Taylor e Richard Burton. Il sabato ho giocato a Wembley, di fronte a 100mila persone. Il lunedì ero di nuovo a lavoro, come se nulla fosse. Vi immaginate uno come David Beckham fare lo stesso? No, vero?”.
giovedì 3 maggio 2012
Aspettando la finale di Coppa
Dati alla mano, è la nuova classica del calcio inglese. Negli ultimi dieci anni Chelsea e Liverpool si sono incontrate un'infinità di volte (ben 35), disputando addirittura dieci incontri in Champions League (sei validi per semifinali, che due volte su tre hanno garantito la qualificazione ai Reds). Nella stagione attuale i due scontri diretti tenutisi allo Stamford Bridge, il primo in Premier e il secondo in Coppa di Lega, sono stati entrambi appannaggio dei ragazzi in rosso. In quei mesi, però, sulla panchina della compagine londinese sedeva il portoghese André Villas-Boas. Un investimento rivelatosi del tutto fallimentare per Roman Abramovich, tra penali da pagare per strapparlo al Porto e il resto del contratto milionario da onorare. Ora ad allenare il Chelsea c’è il carneade Roberto Di Matteo, che ha iniziato il 2011-12 da assistant manager e nel momento cruciale dell’annata si ritrova sulla plancia di comando a giocarsi le finali di due delle competizioni calcistiche più prestigiose del mondo del calcio (FA Cup e Champions League).
L'ex centrocampista della Lazio ha un ricordo molto dolce degli atti conclusivi della FA Cup vissuti in campo con la maglia blu e il leone sul petto. Nel 1997 aprì lo score nel 2-0 inflitto al Middlesbrough di Ravanelli e Festa con quello che è rimasto per 12 anni il goal più veloce nella storia delle finali. Per portare i suoi in vantaggio ci mise 42 secondi, un record che gli è stato sottratto nel 2009 da Louis Saha e che ora è di soli 25 secondi. Nessuno potrà invece mai eguagliare quanto fatto nel 2000, quando contro l'Aston Villa Di Matteo segnò addirittura l'unica rete dell'ultima finale nel vecchio Wembley. A proposito di record, trionfando anche quest'anno Ashley Cole potrebbe migliorare il suo di Coppe vinte in carriera. Ora è a sei, una in più di quattro calciatori di fine '800. Cole, con Didier Drogba, John Terry e Frankie Lampard è uno degli alfieri della vecchia guardia “nemica giurata” di Villas-Boas.
Tornando agli scontri diretti, in realtà i due team di finali contro ne hanno disputata solo una, ma in Coppa di Lega. Vinse il Chelsea ai supplementari, con gesti non proprio oxfordiani rivolti da José Mourinho ai tifosi del Liverpool. Gerrard e compagni proveranno a cancellare quel brutto ricordo e a centrare il secondo double della loro storia nelle coppe nazionali (l'altro è datato 2001). I Reds, un po' come il Chelsea, hanno profondamente deluso in campionato, tanto che in zona Champions League non si sono mai nemmeno visti. Le mille polemiche (e tante giornate di squalifica) provocate dal caso di razzismo che ha visto coinvolto l'attaccante uruguayano Luis Suarez (insulti al Red Devil Patrice Evra) non hanno certo aiutato, così come i tanti infortuni a Steven Gerrard e il rendimento non eccelso di giovani strapagati quali Andy Carroll e Jordan Henderson.
Il match di oggi potrebbe segnare l'addio definitivo alla panchina dei Reds dell'icona Kenny Dalglish. Chiamato nel gennaio del 2011 al capezzale del team che aveva contribuito a rendere grande, sia da giocatore che da manager, per rimediare ai danni fatti da Roy Hodgson, King Kenny potrebbe essere sostituito a breve dalla proprietà a stelle e strisce. Lui era in campo in un celebre quinto turno di coppa giocatosi nel 1982 al vecchio Stamford Bridge (quello con le gradinate e senza il Chelsea Village dietro la Shed) e finito 2-0 per i Blues, che allora vivacchiavano in Second Division ma si presero lo stesso il lusso di battere i campioni d'Inghilterra. Anche senza i soldi di Roman Abramovich il Chelsea in FA Cup compiva lo stesso imprese storiche.
L'ex centrocampista della Lazio ha un ricordo molto dolce degli atti conclusivi della FA Cup vissuti in campo con la maglia blu e il leone sul petto. Nel 1997 aprì lo score nel 2-0 inflitto al Middlesbrough di Ravanelli e Festa con quello che è rimasto per 12 anni il goal più veloce nella storia delle finali. Per portare i suoi in vantaggio ci mise 42 secondi, un record che gli è stato sottratto nel 2009 da Louis Saha e che ora è di soli 25 secondi. Nessuno potrà invece mai eguagliare quanto fatto nel 2000, quando contro l'Aston Villa Di Matteo segnò addirittura l'unica rete dell'ultima finale nel vecchio Wembley. A proposito di record, trionfando anche quest'anno Ashley Cole potrebbe migliorare il suo di Coppe vinte in carriera. Ora è a sei, una in più di quattro calciatori di fine '800. Cole, con Didier Drogba, John Terry e Frankie Lampard è uno degli alfieri della vecchia guardia “nemica giurata” di Villas-Boas.
Tornando agli scontri diretti, in realtà i due team di finali contro ne hanno disputata solo una, ma in Coppa di Lega. Vinse il Chelsea ai supplementari, con gesti non proprio oxfordiani rivolti da José Mourinho ai tifosi del Liverpool. Gerrard e compagni proveranno a cancellare quel brutto ricordo e a centrare il secondo double della loro storia nelle coppe nazionali (l'altro è datato 2001). I Reds, un po' come il Chelsea, hanno profondamente deluso in campionato, tanto che in zona Champions League non si sono mai nemmeno visti. Le mille polemiche (e tante giornate di squalifica) provocate dal caso di razzismo che ha visto coinvolto l'attaccante uruguayano Luis Suarez (insulti al Red Devil Patrice Evra) non hanno certo aiutato, così come i tanti infortuni a Steven Gerrard e il rendimento non eccelso di giovani strapagati quali Andy Carroll e Jordan Henderson.
Il match di oggi potrebbe segnare l'addio definitivo alla panchina dei Reds dell'icona Kenny Dalglish. Chiamato nel gennaio del 2011 al capezzale del team che aveva contribuito a rendere grande, sia da giocatore che da manager, per rimediare ai danni fatti da Roy Hodgson, King Kenny potrebbe essere sostituito a breve dalla proprietà a stelle e strisce. Lui era in campo in un celebre quinto turno di coppa giocatosi nel 1982 al vecchio Stamford Bridge (quello con le gradinate e senza il Chelsea Village dietro la Shed) e finito 2-0 per i Blues, che allora vivacchiavano in Second Division ma si presero lo stesso il lusso di battere i campioni d'Inghilterra. Anche senza i soldi di Roman Abramovich il Chelsea in FA Cup compiva lo stesso imprese storiche.
martedì 1 maggio 2012
ll Punto sulla Premier: Manchester è del City. A breve anche la Premier?
L’affermazione nel derby vale il sorpasso per i Light Blues, favoriti da una migliore differenza reti. Lo United in palese difficoltà.
Il Newcastle crolla a Wigan, non riuscendo così ad approfittare della mezza battuta d’arresto dell’Arsenal. Si rivede Luis Suarez, autore di una tripletta a Norwich – da favola l’ultimo goal, realizzato da centrocampo.
COS'E' SUCCESSO – Basta una bella zuccata di Vincent Kompany per regalare al City una delle partite più importanti della sua storia. Il secondo double sullo United in ben 42 anni può veramente valere il primo successo in campionato dal 1968, sebbene ora i ragazzi di Roberto Mancini non devono sottovalutare la pericolosa trasferta di Newcastle. Male lo United, protagonista di una gara incolore e tutto sommato fortunato a non aver subito più di una rete. Nel resto della giornata continua a tenere banco la lotta per un posto nella prossima Champions League. Mezzo passo falso dell’Arsenal, a cui non basta il ventottesimo goal in Premier di Robin Van Persie per aver ragione di uno Stoke ormai salvo. Prima affermazione dell'anno in un derby londinese e quattrocentesima in Premier League per il Chelsea. Asfaltato un QPR fin troppo abulico – e adesso sull’orlo del precipizio – anche grazie a una bella tripletta di Fernando Torres (la prima dal 2009 a questa parte). Il Tottenham torna alla vittoria dopo quattro partite (solo la seconda in dieci incontri) e si rilancia nella corsa per l’Europa che conta. Troppo fragile la resistenza del Blackburn, quasi condannato a raggiungere il Wolverhampton in Championship. Categoria dove molto probabilmente non andrà il Wigan, maramaldo contro un Newcastle che pure era reduce da ben sei vittorie consecutive ma che può ancora sperare di arrivare nelle prime quattro. Pareggi tutto sommato utili per il Bolton (2-2 a Sunderland) e l’Aston Villa (0-0 nel derby con il West Bromwich Albion). A proposito dei Baggies, il loro manager Roy Hodgson appare ormai come il probabile successore di Fabio Capello alla guida dei Tre Leoni. La Football Association avrebbe scelto lui e non il superfavorito Harry Redknapp. Una sorpresa non da poco.
IL TOP – Ci hanno creduto sempre, anche quando erano scivolati a otto punti di distanza dai cugini. Il Manchester City ha dimostrato di essere una squadra matura e pronta per successi importanti, legittimando con il gioco la superiorità nei confronti dello United – cui, terza squadra nella storia della Premier, hanno inflitto sette goal nei due derby stagionali.
IL FLOP – Era già successo al Craven Cottage. Pure nell’altro derby del West end londinese il QPR si era fatto infilare ben sei volte. Con il Chelsea la resistenza dei pericolanti Rangers non ha retto nemmeno un minuto, i Super Hoops hanno finito per essere travolti già nel primo tempo. Visto anche il calendario (ultima in casa del Manchester City) la salvezza appare quasi una chimera.
LA SORPRESA – Non è tanto la vittoria del Wigan sul Newcastle a stupire, quanto le sue dimensioni. Negli ultimi due mesi i Latics avevano già fatto incetta di scalpi illustri (Liverpool, Manchester United e Arsenal), ma francamente ben pochi potevano ipotizzare che le Magpies potessero ritrovarsi sotto un pesantissimo fardello di quattro reti dopo soli 45 minuti.
TOH CHI SI RIVEDE – Dopo sette anni di calvario – con tanto di retrocessione in terza serie – si riaffaccia nel calcio che conta il Southampton. Sabato ha stravinto per 4-0 con il Coventry City, mantenendo due fondamentali punti di vantaggio sul West Ham, destinato così ad affrontare le forche caudine dei play offs. Bentornati Saints!
LA CHICCA – Tottenham-Blackburn è stata una partita da ricordare, almeno a livello statistico. Il centrocampista degli Spurs Sandro ha vinto tutti gli 11 tackle provati (più di lui aveva fatto Mascherano nel 2010 contro il Wigan), mentre non accadeva dal 2004 (Manchester United-West Bromwich Albion) che una squadra non riuscisse a indirizzare nemmeno un tiro verso la porta avversaria. Non a caso i Rovers sono penultimi…
CONSIGLI PER GLI ACQUISTI – Allo Swansea ha fatto subito innamorare tutti. Il centrocampista offensivo islandese Gylfi Sigurdsson è capace di grandi giocate e segna con una discreta regolarità, come si ricordano bene i tifosi del Reading, che lo hanno ammirato fino a due anni fa. In Galles è arrivato a gennaio, in prestito dall’Hoffenheim. Ora lui vorrebbe tanto rimanere in Premier e non è detto che non lo possa fare, casomai accasandosi presso qualche compagine di profilo ancora più alto.
Il Newcastle crolla a Wigan, non riuscendo così ad approfittare della mezza battuta d’arresto dell’Arsenal. Si rivede Luis Suarez, autore di una tripletta a Norwich – da favola l’ultimo goal, realizzato da centrocampo.
COS'E' SUCCESSO – Basta una bella zuccata di Vincent Kompany per regalare al City una delle partite più importanti della sua storia. Il secondo double sullo United in ben 42 anni può veramente valere il primo successo in campionato dal 1968, sebbene ora i ragazzi di Roberto Mancini non devono sottovalutare la pericolosa trasferta di Newcastle. Male lo United, protagonista di una gara incolore e tutto sommato fortunato a non aver subito più di una rete. Nel resto della giornata continua a tenere banco la lotta per un posto nella prossima Champions League. Mezzo passo falso dell’Arsenal, a cui non basta il ventottesimo goal in Premier di Robin Van Persie per aver ragione di uno Stoke ormai salvo. Prima affermazione dell'anno in un derby londinese e quattrocentesima in Premier League per il Chelsea. Asfaltato un QPR fin troppo abulico – e adesso sull’orlo del precipizio – anche grazie a una bella tripletta di Fernando Torres (la prima dal 2009 a questa parte). Il Tottenham torna alla vittoria dopo quattro partite (solo la seconda in dieci incontri) e si rilancia nella corsa per l’Europa che conta. Troppo fragile la resistenza del Blackburn, quasi condannato a raggiungere il Wolverhampton in Championship. Categoria dove molto probabilmente non andrà il Wigan, maramaldo contro un Newcastle che pure era reduce da ben sei vittorie consecutive ma che può ancora sperare di arrivare nelle prime quattro. Pareggi tutto sommato utili per il Bolton (2-2 a Sunderland) e l’Aston Villa (0-0 nel derby con il West Bromwich Albion). A proposito dei Baggies, il loro manager Roy Hodgson appare ormai come il probabile successore di Fabio Capello alla guida dei Tre Leoni. La Football Association avrebbe scelto lui e non il superfavorito Harry Redknapp. Una sorpresa non da poco.
IL TOP – Ci hanno creduto sempre, anche quando erano scivolati a otto punti di distanza dai cugini. Il Manchester City ha dimostrato di essere una squadra matura e pronta per successi importanti, legittimando con il gioco la superiorità nei confronti dello United – cui, terza squadra nella storia della Premier, hanno inflitto sette goal nei due derby stagionali.
IL FLOP – Era già successo al Craven Cottage. Pure nell’altro derby del West end londinese il QPR si era fatto infilare ben sei volte. Con il Chelsea la resistenza dei pericolanti Rangers non ha retto nemmeno un minuto, i Super Hoops hanno finito per essere travolti già nel primo tempo. Visto anche il calendario (ultima in casa del Manchester City) la salvezza appare quasi una chimera.
LA SORPRESA – Non è tanto la vittoria del Wigan sul Newcastle a stupire, quanto le sue dimensioni. Negli ultimi due mesi i Latics avevano già fatto incetta di scalpi illustri (Liverpool, Manchester United e Arsenal), ma francamente ben pochi potevano ipotizzare che le Magpies potessero ritrovarsi sotto un pesantissimo fardello di quattro reti dopo soli 45 minuti.
TOH CHI SI RIVEDE – Dopo sette anni di calvario – con tanto di retrocessione in terza serie – si riaffaccia nel calcio che conta il Southampton. Sabato ha stravinto per 4-0 con il Coventry City, mantenendo due fondamentali punti di vantaggio sul West Ham, destinato così ad affrontare le forche caudine dei play offs. Bentornati Saints!
LA CHICCA – Tottenham-Blackburn è stata una partita da ricordare, almeno a livello statistico. Il centrocampista degli Spurs Sandro ha vinto tutti gli 11 tackle provati (più di lui aveva fatto Mascherano nel 2010 contro il Wigan), mentre non accadeva dal 2004 (Manchester United-West Bromwich Albion) che una squadra non riuscisse a indirizzare nemmeno un tiro verso la porta avversaria. Non a caso i Rovers sono penultimi…
CONSIGLI PER GLI ACQUISTI – Allo Swansea ha fatto subito innamorare tutti. Il centrocampista offensivo islandese Gylfi Sigurdsson è capace di grandi giocate e segna con una discreta regolarità, come si ricordano bene i tifosi del Reading, che lo hanno ammirato fino a due anni fa. In Galles è arrivato a gennaio, in prestito dall’Hoffenheim. Ora lui vorrebbe tanto rimanere in Premier e non è detto che non lo possa fare, casomai accasandosi presso qualche compagine di profilo ancora più alto.
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