giovedì 13 novembre 2008

Qualche aneddoto sul Chelsea

Questo esce domani su Goal.com

“You’ve got no history”. Quante volte da quando Roman Abramovich ha rilevato la loro squadra i tifosi del Chelsea si sono sentiti sbeffeggiare con cori nei quali il club dello Stamford Bridge viene dipinto senza mezzi termini come privo di storia, di tradizione. Insomma, un completo intruso al gran ballo del calcio inglese. In realtà le canzoncine intonate negli stadi della Premier sembrano troppo spesso motivate da una sana dose d’invidia per i successi collezionati dai Blues, soprattutto grazie ai petrorubli del serafico Roman. Certo, a voler essere proprio pignoli, si dovrebbe ammettere che il Chelsea è la più giovane tra le squadre professionistiche londinesi, ma è pur sempre nata più di 100 anni fa, nel 1905. Inoltre nel secolo di vita pre-Abramovich qualche trofeo (per la verità pochini) lo hanno pur portato a casa, di frequente sciorinando un football di qualità grazie a campioni del calibro di Peter Osgood e Gianfranco Zola.

E poi, se proprio di storia vogliamo parlare, come non narrare la particolare genesi dei Blues? In quell’epoca parecchi erano i club nati per rimpiazzare il popolarissimo cricket nei mesi invernali (tanto per citarne due, Sheffield Wednesday e Preston North End) su iniziativa dei proprietari o dei lavoratori impiegati nella pletora di fabbriche sparse per il Paese (Arsenal nel primo caso, West Ham United nel secondo). Ma numerosi furono anche i team fondati per volere di uomini di chiesa o di istituzioni religiose – ci vengono in mente Bolton Wanderers, Everton e Southampton. Nessuna compagine, però, fu creata per “colpa” di uno stadio.

Sfogliando le foto del vecchio Stamford Bridge si scopre che prima della ristrutturazione aveva una inusuale – per gli impianti britannici – forma circolare. Questo perché in epoca vittoriana fu ideato per ospitare eventi sportivi di vario genere: atletica, ciclismo e ovviamente football. Ma inizialmente nessun club calcistico si dichiarò disponibile a trasferirsi in pianta stabile in quei paragi. Il nuovo proprietario del terreno dove sorgeva l’arena, Gus Mears, rampollo di una nota famiglia di costruttori londinesi, non riuscì infatti a convincere l’allora presidente del Fulham Henry Norris a spostare poche miglia più a nord la sua compagine. Mears, che dall’operazione ci voleva tirar fuori un bel gruzzolo di quattrini, si sentì sbattere in faccia un fragoroso no proprio a causa dell’elevato affitto richiesto. Norris, anche lui imprenditore senza scrupoli e, si vocifera, personaggio di spicco della massoneria, preferì continuare a far giocare il Fulham al Craven Cottage, tutt’ora uno degli stadi più belli e romantici d’Inghilterra, che così si risparmiò una fin troppo precoce demolizione. Poi, una volta abbandonati i Cottagers e approdato all’Arsenal, fu proprio Norris a far emigrare i Gunners da Woolwich (Londra sud) alla sede attuale nel nord della capitale, quasi sullo zerbino di casa del Tottenham – che infatti non prese benissimo la cosa. Ma questa è un’altra storia.

Torniamo allo Stamford Bridge e a un delusissimo Mears, che in un primo momento sembrò riporre in soffitta l’idea di sfruttare a fini commerciali l’arena sportiva e manifestò invece l’intenzione di cedere il terreno alla Great Western Railway, che necessitava di uno spazio per costruire un deposito per il carbone. Ma all’improvviso il buon Gus cambiò idea e decise di farsi il suo football club. Lo Stamford Bridge aveva finalmente trovato un inquilino.

In quei primi anni di vita arrivò subito una promozione in First Division, allora monopolizzata dalle compagini del Nord del paese. Un inizio scoppiettante a cui però fecero seguito un mucchio di stagioni deludenti. In quel Chelsea d’antan c’era già un personaggio leggendario: il portiere William Foulkes, anche detto Fatty (grasso) a causa della sua mole “imponente”. Narra la vulgata del West end londinese che Foulkes un giorno arrivò per primo nella sala da pranzo dell’albergo che ospitava il Chelsea e pensò bene di spazzolarsi anche tutte le colazioni dei suoi compagni. Ma non andatelo a raccontare a un preparatore atletico dei nostri giorni...

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