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Invece di bruciarla, tagliuzzarla o scioglierla nell'acido, gli inglesi l'hanno messa in bella mostra nel loro splendido museo del calcio, appena inaugurato nel cuore di Manchester. È la maglia dell'Argentina di un inusuale blu elettrico indossata da Diego Armando Maradona il 22 giugno 1986 allo stadio Azteca in occasione del match valido per i quarti di finale del mondiale messicano. Una partita dalle tinte forti, con il ricordo, le ferite ancora aperte della guerra per le isole Falkland/Malvinas a fare da sfondo al confronto tra due delle scuole calcistiche più importanti del Pianeta. Quel giorno è ricordato per il goal più bello della storia della Coppa del Mondo. E per la “mano di Dio”.
Quella camiseta con il dieci impresso sulle spalle capitò per caso nelle mani di Steve Hodge, proprio il centrocampista dei Tre Leoni protagonista dello sciagurato retropassaggio colpevole di aver favorito il “colpo proibito” che beffò il povero Peter Shilton e fece impazzire di rabbia decine di milioni di appassionati inglesi. Hodge, una buona carriera soprattutto al Nottingham Forest del vulcanico Brian Clough, ha addirittura scritto un libro dal titolo “L'uomo con la maglia di Maradona”, in cui spiega che la ottenne perché fu l'ultimo a uscire dal campo dopo aver concesso un'intervista con la ITV e, incontrato il fuoriclasse argentino nel tunnel degli spogliatoi, gli chiese di fare il fatidico “baratto”. “Non ho mai portato rancore nei suoi confronti e considero un onore aver fatto scambio di maglia con lui. Chissà se ha ancora la mia” ha dichiarato Hodge qualche tempo fa al quotidiano inglese The Independent, cui ha anche riferito di aver ricevuto offerte “molto congrue” per una delle memorabilia sportive più bramate di sempre, preferendo invece donarla al museo già nella sua versione “ridotta” di Preston, prima del trasloco definitivo nella sede attuale.
Di pezzi rari nell'avveniristico palazzo tutto vetri e acciaio nel cuore di Manchester ce ne sono in abbondanza, per lo più tutti messi a disposizione su base temporanea o permanente da grandi collezionisti. C'è la maglia indossata da un Pelé ancora ragazzino ma già fenomenale al suo esordio ai Mondiali di Svezia 1958 contro l'URSS, una divisa appartenuta all'immenso Alfredo Di Stefano e l'elegante trofeo originale che spettava ai vincitori della Coppa delle Coppe, sacrificata dall'UEFA sull'altare del calcio moderno nel 1999, allorché gli ultimi a sollevarlo furono i campioni della Lazio cragnottiana.
Ma oltre a queste chicche assolute, il museo ha l'obiettivo di ripercorrere un secolo e mezzo di storia del football britannico, con una sezione dedicata al panorama internazionale.
Si parte allora proprio dalle origini, da un libricino dove si possono leggere, scritte a mano dal segretario della neonata Football Association Ebenezer Cobb Morley, le regole del gioco. Quel prezioso documento risale al 1863, quando il football era uno sport per ricchi, per i rampolli della upper class che frequentavano le esclusive public school. Istituti che, a dispetto del nome, rimangono ancor oggi privati e molto costosi, e che in piena epoca vittoriana tendevano tutte ad avere una propria “interpretazione” del gioco. Il calcio si diffuse in tutta l'isola, si disputò la prima sfida tra i “vecchi nemici” di Inghilterra e Scozia – e una maglia di lana di un bianco ormai sbiadito con i tre leoni sul petto ce lo ricorda in una delle teche delle sale iniziali. Verso la fine del Diciannovesimo secolo la working class delle Midlands e del Nord del Paese “scippò” il football all'alta borghesia e alla nobiltà. Nacque il professionismo. Nel 1888 si giocò il primo campionato dell'allora First Division, nel frattempo si erano già tenute una quindicina di edizioni della FA Cup. I cimeli del Preston North End, prima grande squadra della storia, fanno il paio con il pallone color cioccolata della finale di coppa del 1903, vinta dal piccolo Bury nientemeno che per 6-0 sul Derby. Nel puntuale racconto dei curatori del museo non ci sono solo i “ferri del mestiere”, palloni, scarpini e maglie, dal momento che vengono inseriti anche i parafernalia dei tifosi. Le rumorose raganelle di legno, il classico flat cap anni Trenta lasciano spazio alle prime sciarpe fatte in casa, ma pure agli strumenti di offesa degli hooligan, tirapugni e coltelli Stanley inclusi.
La narrazione non fa sconti, le violenze e i disastri negli stadi di fine anni Ottanta (Bradford e Hillsborough) non sono certo risparmiati, così come una velata critica, visto l'approccio comunque molto retrò, al “calcio moderno”. Ma non potevano mancare i momenti di gloria del football dei Maestri, i tanti vissuti dai club, i pochi dalla nazionale. Gli appassionati possono ammirare la copia della Coppa Rimet consegnata dalle regina nelle mani di Bobby Moore un pomeriggio del luglio 1966. Quella originale era stata rubata e poi ritrovata per caso da un cagnetto di nome Pickles dietro un cespuglio nel sud di Londra, per poi essere trafugata definitivamente in Brasile nel 1983. E a proposito del compianto capitano dell'Inghilterra e del West Ham negli anni Sessanta, la sua foto mentre si scambia la maglia con Pelé a Messico 1970 è una delle immagini più iconiche del football mondiale. Ebbene quel prezioso indumento indossato dal biondo Bobby è arrivato fino a Manchester direttamente dal Brasile, dove per decenni ha soggiornato in un bar di Rio de Janeiro. È un po' maltrattato e macchiato di nicotina, ma conserva tutto il suo fascino.
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