L'articolo scritto per Calcio 2000 il mese scorso. Davo Taarabt come sicuro partente. Invece non solo è rimasto, ma le voci su un apparentemente benefico cambio di proprietà dalle parti del Loftus Road si sono rivelate molto fondate.
Le tre squadre del West End londinese la prossima stagione giocheranno tutte in Premier League. Non era mai successo, nemmeno quando la massima divisione inglese si chiamava First Division. A dirla tutta tra le compagini professionistiche della parte più ricca, borghese ed elegante della capitale londinese ci sarebbe anche il Brentford, che pure negli anni Trenta sul suo campo fece tremare il grande Arsenal di Herbert Chapman, ma sono ormai decenni che i Bees vivacchiano tra terza e quarta serie.
Chelsea, Fulham e Queen’s Park Rangers, in rigoroso ordine alfabetico, affrontano il campionato 2011-12 con ambizioni ben differenti tra loro. I Blues si aspettano che il nuovo arrivato tecnico portoghese Andreé Villas-Boas sappia condurre una squadra parzialmente ringiovanita al quarto successo in Premier in sette anni – dopo le imprese di Josè Mourinho e Carlo Ancelotti – ma soprattutto a quella gloria europea scivolata via nella piovosa notte di Mosca del maggio 2008. Cottagers e Super Hoops si accontenterebbero di qualche acuto nelle coppe e di un tranquillo piazzamento a metà classifica. Il club del Craven Cottage e il QPR (al ritorno in Premier dopo 15 tribolati anni di assenza) non hanno certo inscenato campagne acquisti faraoniche. È anzi probabile che quando leggerete questo articolo la stella della promozione dei biancoblu, il marocchino Adel Taarabt, abbia trovato sistemazione altrove, lasciando più di un grattacapo all’esperto e fumantino Neil Warnock, che almeno ha rafforzato l’attacco con l’ex perugino Jay Bothroyd.
L’olandese Martin Jol, reduce da un buon periodo alla guida dell’Ajax, ritenta la sorte in Premier dopo i fasti del Tottenham, squadra che è stato costretto ad abbandonare per la solita miopia dei dirigenti del White Hart Lane nel 2007.
Fin qui l’attualità, ma quando si parla di team londinesi, per di più separati solo da una manciata di chilometri, gli aneddoti storici legati a rivalità fermentate per decenni si sprecano.
Nel ventesimo secolo le tre compagini hanno raccolto le briciole al grande banchetto del calcio inglese, dominato dalle realtà del nord del Paese e, per quanto riguarda Londra, da Arsenal e Tottenham.
In tema di campionati, solo il Chelsea fu capace di vincerne uno nel lontano 1955, sotto la guida ispirata di Ted Drake, che seppe fare di necessità virtù, puntando sui giovani (i cosiddetti Anatroccoli di Drake) e scovando nelle categorie inferiori giocatori con un altissimo rapporto qualità-prezzo. Insomma, l’esatto contrario di quello che sta accadendo nell’era Abramovich. La cifra distintiva dei Blues, ma anche dei “cugini”, è stata rappresentata da una situazione finanziaria spesso complessa, e stiamo usando un eufemismo.
Quando nel 1982 la famiglia Mears si vide costretta a cedere il club che aveva tirato su dal nulla nel 1905 – essenzialmente per “occupare” anche con il calcio un impianto polifunzionale come Stamford Bridge – l’esborso per il nuovo presidente Ken Bates fu di una sola sterlina. Troppi i debiti cui far fronte (due milioni dell’epoca), che però nel tempo non diminuirono, anzi. Allorché Bates a Abramovich – l’uno davanti a una bottiglia di vino, l’altro a un bicchiere d’acqua, dal momento che è astemio – contrattarono la cessione del club nel 2003, il prezzo pattuito fu di 140 milioni di sterline, oltre la metà però solo per coprire le passività di bilancio.
Fortuna volle che il miliardario russo dal suo elicottero scorse lo Stamford Bridge e fu subito amore a prima vista e che vincendo 2-1 contro il Liverpool nell’ultima giornata del campionato 2002-03 il Chelsea si qualificò per la Champions League, altrimenti si narra che Abramovich avrebbe rivolto le sue attenzioni altrove (probabilmente comprando il Tottenham). E a quel punto sarebbe stata dura trovare qualcuno disposto ad accollarsi tutti quei debiti.
Anche dalle parti del Craven Cottage – a sole due fermate di metro dallo Stamford Bridge – per anni le casse societarie sono rimaste pressoché vuote. In questi casi una base di tifosi non vastissima di certo non aiuta e qui la colpa è di quei guastafeste dei Blues, presentatisi sull’uscio di casa dei Cottagers a inizio del secolo scorso. E pensare che la dirigenza dei bianconeri in quel fatidico 1905 preferì rinunciare a un trasferimento allo Stamford Bridge, che avrebbe così evitato la “comparsa” dei cugini”…
Ma se i supporter del Fulham, anche per ragioni storiche, hanno il dente avvelenato con il Chelsea, di certo non provano affetto per il QPR. Negli anni Ottanta ci fu il rischio molto concreto di una fusione con i Super Hoops, per dar vita a un’unica realtà dall’improbabile nome di Fulham Park Rangers. Quella sorta di chimera calcistica avrebbe dovuto giocare al Loftus Road, mentre il Craven Cottage sarebbe stato abbattuto per farne abitazioni di pregio in una delle zone più esclusive di Londra. La Lega bocciò il progetto, il ministero dei Beni Culturali stabilì che la facciata dell’attuale Johnny Haynes Stand – allora Stevenage Road Stand – e il meraviglioso Cottage dovessero essere preservate e il più bello e romantico stadio inglese scampò per la prima volta una brutta fine. Dopo anni di ulteriori incertezze e pericoli, l’intervento dell’ex giocatore e poi commentatore televisivo Jimmy Hill evitò che lo stadio fosse comunque mandato in pensione, salvando solo le parti protette da vincoli. Nel 1997 Hill riuscì a fare di più, convincendo il proprietario dei grandi magazzini Harrods Mohamed al Fayed a comprarsi il Fulham, che così passò in pochi anni dalla mediocrità estrema della quarta divisione (una sconfitta nel 1996 a Torquay coincise con il nadir della storia del club, per alcuni giorni penultimo in classifica nell'ultimo gradino del professionismo) allo scintillio della Premier, raggiunta alla grande nel 2001. Tra campionati di media classifica e salvezze acciuffate in extremis – celebre quella del 2008 ai danni del Birmingham City – i Cottagers si sono regalati un’insperata finale di Europa League, persa ai supplementari contro l’Atletico Madrid. Ma nel frattempo hanno di nuovo rischiato di dover abbandonare il Craven Cottage. I sogni di gloria di Al Fayed andavano di pari passo con uno stadio nuovo, più moderno e capiente. In attesa di prendere una decisione, il Fulham ha conosciuto l’onta di dover giocare due annate a casa dei mal sopportati cugini del QPR. Poi le cose sono cambiate, il vecchio Cottage è stato messo a norma, rifacendo le due gradinate che ora non sono più scoperte e con posti in piedi, e “accontentandosi” di un impianto tutto sommato adatto a un bacino d’utenza relativamente contenuto.
Anche lo stadio del QPR ha un fascino indiscutibile, con le sue tribune compatte e molto attaccate al campo e il design dal sapore un po' antico. Quando i vari Flavio Briatore, Bernie Ecclestone e Lakshmi Mittal (miliardario indiano del settore dell’acciaio, uno che ha più soldi di Abramovich) hanno rilevato il club agonizzante (ci risiamo!), sembrava scontato il trasferimento in un’arena più grande e moderna, oltre all’allestimento di una squadra zeppa di campioni strapagati. Le cose non sono andate proprio così. Sebbene i Super Hoops siano abituati ai traslochi – in quasi 130 anni di storia hanno cambiato casa una ventina di volte – non si parla più di lasciare il Loftus Road, mentre campagne acquisti stile Chelsea o Manchester City non se ne sono viste e non sembrano nelle intenzioni dell’attuale proprietà.
Mittal e Ecclestone detengono il 95 per cento delle quote del club, ma la voglia di investire in grande stile continua a latitare (anzi, si sussurra di una possibile cessione della società). Il patron della Formula Uno, del resto, non ha problemi a ricordare che è un tifoso del Chelsea e non di rado abbandona i match del QPR all’intervallo.
Eppure i bianco blu non giocano così male. Certo la squadra del 1975-76, che arrivò di un soffio alle spalle del grande Liverpool di Kevin Keegan e Ian Callaghan, era un’altra cosa. Erano i tempi di Stan Bowles, un numero 10 fantasioso quanto mattacchione, che amava alla follia le donne, il gioco e la birra. E che è rimasto famoso per episodi “pittoreschi” come quando prese a calci la FA Cup appena vinta dal Sunderland ed esposta a bordo campo in un match del 1973, o quando prima di un match con la nazionale contro l’Olanda si presentò con ai piedi uno scarpino dell’Adidas e uno della Gola. Giusto perché dopo che la Gola gli aveva assicurato un gettone di 200 sterline per indossare le sue nuove calzature, l’Adidas aveva offerto 100 sterline in più. Un mavarick, un purosangue scapestrato come il suo predecessore, Rodney Marsh. I suoi gol furono imprescindibili per raggiungere l’unica vittoria nella storia del club, la Coppa di Lega del 1967, per di più conquistata nonostante la squadra militasse in terza serie. “Io non sono il Pelé bianco, lui è il Rodney Marsh nero”, una delle sue frasi più celebri, che danno bene l’idea del personaggio. A fine carriera il buon Rodney andò a comporre un terzetto di grandi talenti stagionati (e bevitori incalliti) con George Best e Bobby Moore al Fulham. Personaggi affermatisi nel periodo d’oro del calcio inglese, negli anni Sessanta e a inizio settanta. Quando allo Stamford Bridge c’era un re di nome Peter Osgood. Uno tutto fantasia e colpi di classe, che sarebbe piaciuto molto anche a un giovane miliardario russo.
che dire.. per rimanere in argomento ;-)
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