Bill Shankly è stato senza ombra di dubbio uno dei più grandi allenatori della storia del football britannico. Nella Merseyside, sponda Liverpool FC, è un simbolo, un'icona immortale, una divinità oggetto di una sorta di culto della personalità. Shankly è il Liverpool, o meglio è colui che ha fatto sì che una squadra e una società allo sbando spiccassero il volo per divenire uno dei club più conosciuti e di successo al mondo.
Insieme ai suoi grandi amici Matt Busby (Manchester United) e Jock Stein (Celtic), il buon Bill ha rappresentato l'avanguardia di una meravigliosa generazione di tecnici scozzesi. Come Busby e Stein, Shankly era figlio della working class. Il suo paesino di origine, Glenbuck, era terra di minatori, mestiere che lui e i suoi quattro fratelli si risparmiarono grazie al football. Tutti e cinque intrapresero la carriera professionistica. Bill eccelse anche sul campo, tanto che la sua ex squadra del Preston North End gli ha dedicato una tribuna dello stadio appena rimodernato. Il faccione sorridente di Shankly, infatti, campeggia nell'omonima End.
All'Anfield Road, invece, c'è una sua statua davanti alla mitica Kop e uno degli ingressi dell'impianto è stato battezzato Shankly's Gate. Ovviamente il più importante, tanto che il celebre “cancello” da un po' di anni è stato aggiunto al simbolo del Liverpool.
Shankly divenne famoso anche per le sue battute taglienti e i suoi spassosi aforismi. Quando fu nominato manager dei Reds affermò che avrebbe plasmato “una squadra invincibile, così dovranno mandare un team da Marte per batterci”. Peccato che all'epoca, era il 1959, il Liverpool fosse tutt'altro che invincibile. Nel 1954 era retrocesso in Second Division dopo una stagione disastrosa – “memorabile” un 1 a 9 rimediato contro il Birmingham – e durante cinque stagioni passate nel campionato cadetto le sue prestazioni avevano lasciato molto a desiderare, tanto per usare un eufemismo.
L'esordio di Shankly non fu dei migliori: un rotondo 0 a 4 interno contro il Cardiff City. Il tecnico scozzese ci mise tre anni per riportare i Reds in prima divisione, ma solo una stagione per vincere un titolo atteso da quasi 20 anni. La sua prima grande squadra aveva raggiunto i vertici del calcio inglese grazie a un gioco “palla a terra” e all'oggi tanto decantato gruppo. Shankly è stato uno dei primi a curare la componente psicologica dei giocatori, sapendo gestire alla perfezione i suoi ragazzi anche fuori del campo di allenamento di Melmwood. La base del suo ragionamento era che quando uno degli undici mandati in campo si ritrovasse in difficoltà, ai suoi compagni spettasse di aiutarlo, di sostenerlo proprio come avrebbero fatto tra loro i minatori di Glenbuck.
Un altro dei suoi grandi meriti fu quello di contornarsi di assistenti di grande valore: Bob Paisley e Joe Fagan, ovvero i suoi successori sulla panchina dei Reds e coloro che raccolsero i frutti di quanto da lui seminato.
La messe di vittorie della metà degli anni Sessanta continuò con un altro campionato nel 1966 e una
FA Cup (la prima nella storia del Liverpool) nel 1965.
Allora la Kop, la gradinata più famosa del pianeta, poteva ospitare ben 28mila tifosi, tutti in piedi e stipati in pochi metri quadrati di spazio. Tra quei 28mila e Shankly si instaurò subito un rapporto di amore incondizionato. Narra Peter Thompson, uno dei fedelissimi dello scozzese, che un sabato il manager si presentò negli spogliatoi solo un quarto d'ora prima del fischio d'inizio e con i vestiti in disordine. Si era fatto un giro nella Kop, dove i tifosi gli avevano dimostrato in maniera fin troppo calorosa il loro affetto. I racconti sui biglietti regalati ai fan sprovvisti si sprecano, così come la battute salaci sui cugini dell'Everton. “a Liverpool ci sono due squadre forti:il Liverpool e il Liverpool riserve” è una delle più celebri. Se la fin troppo abusata “il calcio non è una questione di vita o di morte, ma molto di più” è invece presa in prestito dal mondo del football americano, c'è un’altra frase che spiega alla perfezione come Shankly vivesse in maniera totale il calcio. Ai giornalisti che gli chiedevano se fosse vero che aveva portato la moglie a vedere una partita del Rochdale (squadra del Lancashire che militava nelle divisioni minori) come regalo di anniversario, il grande Bill rispose: “No, era per il suo compleanno. E poi non mi sarei mai sposato durante la stagione calcistica. Ad ogni modo era la squadra riserve del Rochdale…”.
L'empatia con il popolo biancorosso continuò anche nei sette anni in cui il Liverpool rimase a bocca asciutta, prima di centrare una doppietta campionato-Coppa Uefa nel 1973 e una FA Cup nel 1974. Nella finale di Wembley contro il Newcastle a indossare la casacca numero sette era niente meno che il “re”, King Kevin Keegan. Proprio dopo quell’atto conclusivo della coppa d'Inghilterra, dominato ben oltre il 3-0 finale, Shankly annunciò a sorpresa le sue dimissioni. Alla base della sua decisione c'era un eccessivo accumulo di stress e la voglia di passare più tempo in famiglia.
In realtà sembrò pentirsi subito, tanto da continuare a frequentare quotidianamente il campo dall'allenamento di Melmwood, tra l'imbarazzo del nuovo allenatore Bob Paisley e della società. La dirigenza decise allora di vietargli l'ingresso, scatenando le ire sue e dei tifosi.
Il rapporto con il Liverpool non si sarebbe mai più ricomposto. Sette anni dopo il suo addio al calcio, morì a causa di una crisi cardiaca. Una perdita di portata incalcolabile per la Liverpool di fede biancorossa, ma molto sentita anche nel resto del paese, tanto che il congresso del partito laburista gli rese omaggio tenendo un minuto di silenzio. Per i kopites, i frequentatori della end del Liverpool, lo scozzese rimane un punto di riferimento, una guida. “Shankly lives forever”, vive per sempre, scrissero su uno striscione apparso nella Kop. Fosse ancora tra noi, chissà quante battute caustiche ci avrebbe regalato in questi anni di corporate football.
Articolo scritto per la mia rubrica British Corner su Goal.com
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