Scritto per Slow Foot.
Il salario delle stelle del massimo campionato inglese di calcio è salito di ben il 1.500 per cento fra il 1992, anno di nascita della Premier League, e il 2012. Nello stesso periodo gli stipendi di tutti gli altri lavoratori d'oltre Manica ha fatto registrare un incremento medio del 186 per cento. A rivelarlo un recente studio del think tank britannico High Pay Centre.
Nell’attuale frangente di ristrettezze economiche, gli incrementi salariali sono inferiori alla crescita dell’inflazione. Nella prima parte del 2012 si sono attestati sul 3 per cento, a fronte di un più 3,5 per cento dei prezzi al consumo. Alcune categorie hanno dovuto sostenere sacrifici ancora più duri. La paga dei dipendenti del settore pubblico è bloccata dal 2011 e dovrebbe innalzarsi di uno striminzito un per cento nel biennio 2013-14. I calciatori, invece, non sono nemmeno stati sfiorati dal vento gelido della crisi. “I banchieri e i manager delle grandi corporation spesso fanno paragoni tra i loro stipendi e quelli dei giocatori professionisti,” ha affermato il presidente dell’High Pay Centre Nick Isles in occasione della presentazione del rapporto. “In effetti ci sono delle similarità. I compensi di tutte queste categorie sono elevati, strutturati in maniera molto complessa e spesso segreti” ha chiosato Isles.
Insomma, mentre anche nella nostra Serie A anche i club di primissimo piano fanno a gara per ridurre il tetto ingaggi, in Premier le società continuano a destinare una fetta enorme dei loro proventi alla forza lavoro in maglietta e scarpini. Adesso si raggiunge addirittura il 70 per cento del fatturato annuo, mentre nel 1997 era solo il 48 per cento. Ma ci sono anche squadre come il Manchester City che, avendo alle spalle il fondo sovrano degli Emirati Arabi Uniti, si aggirano sul 107 per cento (praticamente guadagnano meno di quello che pagano a Balotelli e compagni). Al di là dei casi “anomali” della squadra campione d’Inghilterra e del Chelsea, con proprietà ricchissime e spendaccione, il motivo di questo status quo sta proprio nella nascita di quello che viene definito in maniera dispregiativa corporate football.
Se prima il calcio era una passione popolare visceralmente radicata soprattutto nelle comunità working class delle comunità inglesi, una volta terminata la fase più acuta dell’hooliganismo le televisioni e gli esperti di marketing lo hanno reinventato a modo loro, trasformandolo in un “prodotto” vendibile a clienti con le tasche gonfie di denaro. Siano essi società private o esponenti dell'upper class. Poco importava se gli appartenenti alle fasce meno abbienti rimanevano tagliati fuori e gli altri dovevano spesso e volentieri fare enormi sacrifici per seguire la loro squadra del cuore.
I contratti televisivi sono sempre più miliardari – si è passati da 350 milioni di sterline per le prime cinque stagioni a tre miliardi per il triennio 2013-2015 – i biglietti dei match sono schizzati alle stelle e il merchandising prospera. Prova ne sia che le fonti di guadagno dei club di Premier sono spalmate in modo equo su queste tre voci. In Italia invece senza televisione – i cui emolumenti contano per ben oltre il 60 per cento sui bilanci della squadre di Serie A e B – si chiuderebbe subito baracca e burattini.
C'è poco da fare, per vendere un prodotto sempre più appetibile servono interpreti di qualità. Occorrono campioni da attirare con contratti a tanti zeri (comprese le laute prebende per agenti e intermediari, a Londra e dintorni ancora più potenti che da noi). Per i club è una sorta di contrappasso, visto che in Inghilterra per 60 anni è esistito – incredibile dictu – il salary cap, che nel 1901 era di quattro sterline a settimana e nel suo ultimo anno di vita era arrivato a venti, premi esclusi. Poca roba, tanto che grandi campioni del calibro di John Charles, Jimmy Greaves e Gerry Hitchens appena possibile emigrarono in Italia, allora il sogno proibito dei calciatori britannici – come cambiano i tempi! Secondo le stime del sindacato di categoria, nel 1955 i giocatori percepivano in media otto sterline a settimana, tre in meno di quanto guadagnava un operaio qualificato – i cui bonus erano però inferiori.
Se non si era campioni toccava arrotondare con qualche lavoretto, anche in prospettiva futura. Il potere che i dirigenti dei club esercitavano sui giocatori era pressoché assoluto, rafforzato dalla presenza di un’altra regola, quella del retain and transfer system, che dava alla società la possibilità di trattenere un tesserato fin quando lo ritenesse utile alla causa. Al principio degli anni Sessanta i calciatori-sindacalisti riuscirono a scardinare il sistema, sebbene si sussurri che alcune società, tra cui l'Arsenal, lo abbiano tenuto in vita en travesti per altri 20 anni.
Storie quasi inconcepibili ai nostri giorni. Un'epoca in cui troppe squadre sono infarcite di campioni dal conto in banca multimilionario.
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