Quando nacque nel lontano 1899, il Cardiff City si chiamava Riverside e vestiva un’improbabile maglietta marrone e ocra, con pantaloncini e calzettoni neri. Dal 1908, anno del cambio di nome, il colore della compagine gallese è però sempre stato il blu, con qualche vezzosa venatura bianca e gialla qua e là negli anni.
Adesso la nuova proprietà malese ha deciso di spedire in soffitta oltre un secolo di storia del club, che attualmente milita nel campionato inglese di Championship (l’equivalente della nostra serie B), mutando simbolo e soprattutto colori sociali. Meglio il rosso, che in Estremo Oriente è sinonimo di felicità, buona sorte e vitalità. Almeno così la pensano il miliardario Vincent Tan e il suo socio Dato Chan, dal maggio del 2010 alla guida della società. Nello stemma i Bluebirds, da decenni il soprannome del team, finiscono in un angolino, sostituiti dal dragone del Galles, evidentemente più consono alla nuova immagine che si vuole dare del City – che non ha caso ha pure rischiato di chiamarsi Cardiff Dragons – e da un’enfatica scritta “Fire & Passion”. Un motto più consono a una nuova franchigia di qualche sport americano o a una squadra di Major League Soccer.
E i tifosi? Come hanno preso questo ennesimo strappo alla tradizione, questo menefreghismo assoluto nei riguardi dell’identità di una storica squadra di calcio? Male, ma un mesetto fa con la loro vibrante protesta (2mila firme in poche ore a una petizione online e piani di mobilitazione in grande stile) si erano illusi che il problema fosse rientrato. In settimana la sgradita sorpresa, con gli odiati “cambiamenti che avranno effetto immediato”.
Purtroppo che il Beautiful Game abbia venduto una bella fetta della sua anima – e le colpe ricadono sulle proprietà straniere ma anche su quelle autoctone – non è certo una novità, tanto che non ci stupiremmo se l’esempio del Cardiff fosse seguito anche da altri club.
A dirla tutta senza gli imprenditori malesi i Bluebirds avrebbero rischiato seriamente di sparire. I debiti accumulati dalla precedente gestione – quella dell’inglesissimo Peter Risdale – superavano i 40 milioni di euro e mister Tan aveva subito allargato i cordoni della borsa per tamponare la falla. Certo, il Cardiff continua a devolvere l’88 per cento dei suoi introiti in stipendi, classico caso di squadra di seconda serie che vive al di sopra dei suoi mezzi, ma con la “rivoluzione culturale” in atto si potrebbero raccogliere più fondi grazie al merchandising. Forse non a Cardiff, ma in Malesia di sicuro. Poi si racconta che Tan avrebbe guadagnato qualche centinaio di milioni di dollari dalla quotazione in borsa di Facebook, di cui possedeva un bel pacchetto di azioni. Se la singolare “operazione dragone rosso” dovesse andare male, come francamente ci auguriamo, qualche risparmio da investire per riprovare la scalata in Premier – obiettivo che il Cardiff fallisce ormai da troppi anni – dovrebbe pur rimanere, no?
Nessun commento:
Posta un commento