Questo articolo è stato pubblicato oggi sul Manifesto.
Non si è ancora capito se l’offerta di 40 milioni di euro l’anno per far giocare l’attaccate camerunense Samuel Eto’o in Uzbekistan fosse una bufala o meno, fatto sta che oramai è sotto gli occhi di tutti come i contratti dei giocatori siano sempre più ricchi e il loro potere contrattuale – soprattutto dopo la sentenza Bosman – sia notevolmente accresciuto rispetto al passato. Tanto per fare un esempio, la star portoghese del Manchester United Cristiano Ronaldo (quello che la settimana scorsa si è definito schiavo perché non libero di andare al Real Madrid) viaggia sui 150mila euro a settimana, premi esclusi. Il monte salari delle grandi d’Europa ha raggiunto cifre iperboliche, mentre le piccole, se si fa eccezione per l’Inghilterra e in parte la Spagna, devono fare di necessità virtù e andare avanti con il poco che passa il convento. E allora ciclicamente si sente parlare dell’esigenza di fissare un tetto agli ingaggi, di copiare il salary cap in voga negli sport professionistici americani.
Se ciò dovesse accadere, per la disperazione dei vari Moratti e Abramovich, almeno oltre Manica si tratterebbe di un ritorno al passato. Per ben sessant’anni, infatti, in Inghilterra è esistito un sistema rigidamente ancorato a un massimo salariale, che nel 1901 era di quattro sterline a settimana e nel suo ultimo anno di vita era arrivato a venti, premi esclusi. Poca roba, tanto che grandi campioni del calibro di John Charles, Jimmy Greaves e Gerry Hitchens appena possibile emigrarono in Italia, allora il sogno proibito dei calciatori britannici. Secondo le stime del sindacato di categoria, nel 1955 i giocatori percepivano in media otto sterline a settimana, tre in meno di quanto guadagnava un operaio qualificato – i cui bonus erano però inferiori. Se non si era campioni toccava arrotondare con qualche lavoretto, anche in prospettiva futura.
Il potere che i dirigenti dei club esercitavano sui giocatori era pressoché assoluto, rafforzato dalla presenza di un’altra regola, quella del retain and transfer system, che dava alla società la possibilità di trattenere un tesserato fin quando lo ritenesse utile alla causa. I contratti erano a vita, non a termine e con tanti zeri. E’ pur vero che il retain and transfer system all’inizio era stato pensato per favorire esclusivamente i club e in particolare quelli più piccoli, che non avrebbero corso il rischio che i giocatori con più talento si concentrassero solo nelle squadre di maggior successo. Un espediente che sottendeva l’intenzione di garantire il più grande equilibrio possibile nelle varie competizioni. Per i calciatori era unicamente un dogma infernale, che cancellava la loro libertà in tutto e per tutto. La rivolta montò inesorabile. La Professional Footballers’ Association nel 1961, guidata dall’ex del Fulham e poi commentatore televisivo Jimmy Hill, riuscì a ottenere l’abolizione del tetto salariale e con la minaccia dello sciopero provò a intaccare anche il retain and transfer system, poi in teoria mandato in pensione dalla decisione dell’Alta Corte di Londra nel caso Eastham. George Eastham, affermato centrocampista del Newcastle, aveva provato in tutti i modi ad abbandonare il club del Nord-Est, che lo voleva suo per sempre. Dopo essere rimasto fermo per un anno, grazie al pronunciamento emesso in suo favore se ne andò all’Arsenal, con buona pace dei dirigenti dei Magpies. Tuttavia il cambiamento fu più apparente che reale. Se per decenni le società non avevano esitato a versare somme sotto banco per aggirare il limite degli ingaggi, dopo il 1961 ci fu una sorta di salary cap tacito che i grandi club imposero per altri dieci-quindici anni – in realtà si sussurra che l’Arsenal lo abbia applicato sino alla fine degli anni Ottanta. Ma questo non andatelo a raccontare a Cristiano Ronaldo e ai suoi compagni di conto in banca.
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