Stadi fatiscenti, la violenza dilagante degli hooligans, un campionato mediocre e le squadre escluse dalle competizioni europee. Alla fine degli anni Ottanta questo era lo sconfortante panorama del calcio inglese. Dopo la tragica notte dell’Heysel, nel 1985, il nadir si toccò in un caldo sabato della metà di aprile di 20 anni fa, a Sheffield. In occasione della semifinale di Coppa d’Inghilterra tra Liverpool e Nottingham Forest, 96 tifosi dei Reds persero la vita nella Leppings Lane dell’ormai tristemente noto Hillsborough Stadium. Le cause del più grande dramma della storia del calcio britannico? Un impianto obsoleto, una pessima gestione del servizio d’ordine e una condotta inadeguata da parte delle forze dell’ordine, ossessionate dal pericolo hooligans e incapaci di comprendere quale immensa tragedia si stesse svolgendo davanti ai propri occhi.
Peggio di così il football dei Maestri non poteva proprio andare, tanto che risalire la china sembrò a tutti impresa improba. Eppure si compì nell’arco di pochi anni. Quello che, banalizzando all’estremo, noi italiani definiamo il “modello inglese” si realizzò attraverso un processo di stratificazione non sempre omogenea e lineare. La sostanza è che ora (alcune) squadre dominano in Europa, gli stadi sono nuovissimi, sicuri e quasi sempre pieni, la violenza ridotta al minimo e il prodotto “english football” esportato in tutto il mondo.
I sudditi della regina hanno saputo imparare dai marchiani errori del passato. Il rapporto che fece seguito al dramma dell’Hillsborough, ormai conosciuto come Taylor report dal nome del giudice che presiedeva la commissione d’inchiesta, stabilì una serie di regole auree su come rimodernare gli stadi e gestire l’ordine pubblico prima, durante e dopo un match. Nelle arene dei team delle prime due divisioni professionistiche dovevano scomparire le terraces, le folkloristiche gradinate, e tutti i posti dovevano essere a sedere. Via anche le recinzioni, una delle cause dei fatti di Sheffield.
Il governo si mosse su diversi fronti, mettendo a disposizione un fondo per il restyling degli impianti e promulgando delle normative molto severe contro la violenza nel calcio. In merito a questo ultimo punto in tanti pensano che sia stata la signora Thatcher quella che più ha usato il pugno di ferro contro il teppismo negli stadi, ma in realtà le leggi più repressive le ha adottate il primo esecutivo Blair, in particolare con il Football Disorder Act (2000). La normativa garantisce alle forze dell’ordine il potere di chiedere a un magistrato di impedire in via preventiva, ovvero anche in mancanza di una precedente condanna, che un tifoso possa andare a vedere a una partita di calcio, sia sul territorio inglese che all’estero. Il nodo cruciale del dettato normativo sta tutto nell’ampio margine di discrezionalità conferito ai tutori della legge.
La repressione delle forze dell’ordine, le normative draconiane, gli stewards ben addestrati e sufficientemente responsabilizzati, l’occhio sempre attento delle telecamere a circuito chiuso, la scomparsa delle gradinate e, in maniera secondaria, l’innalzamento del costo dei biglietti. Questi, per riepilogare, gli ingredienti della ricetta impiegata per estirpare l’erba cattiva dell’hooliganismo.
In presenza di stadi più moderni e sicuri e dove i violenti non facevano più il bello e il cattivo tempo, i tifosi tornarono ad affollare gli spalti. La stagione 1985-86, quella del post Heysel, fece registrare la media spettatori più bassa dal secondo dopo-guerra. In totale si contarono solo 16,5 milioni di presenze. Ma già nel 1996 i tifosi negli stadi furono 21,8 milioni, con un incremento del 32%, mentre nel 2004 si arrivò a 29 milioni.
In via di risoluzione le questioni stadi e violenza, bisognava risollevare le sorti sportive delle squadre inglesi, riammesse in Europa nel 1990 dopo quattro stagioni di bando totale. L’annoso conflitto tra la Football Association e la Football League fece da sfondo alla nascita della Premier League, la lega dei più forti e, di lì a breve, dei più ricchi.
Approfittando del revival in atto, i vertici della Premier spuntarono un lucroso contratto televisivo con la rete satellitare di Rupert Murdoch, che con il football riuscì a decollare dopo i primi anni di vacche magre. Al primo accordo quinquennale ne hanno fatti seguito altri quattro, con le cifre che sono quasi sempre cresciute in maniera esponenziale, passando da 191 milioni di sterline fino alla recentissima intesa per il periodo 2010-2013 che prevede un ammontare di 1,7 miliardi di sterline.
I milioni di Sky, e dal 2006 anche di Setanta Sport, a tutt’oggi vanno divisi per il 50% in parti uguali, per il 25% in base alle apparizioni televisive (da scegliere secondo l’andamento del campionato), mentre il restante 25% dipende dal piazzamento finale in classifica. Un buon incentivo per giocarsi anche un’apparentemente inutile ultima di campionato per decidere un decimo piuttosto che un undicesimo posto.
Così come nel resto d’Europa, anche in Inghilterra spesso i frequentatori di stadi si sono abituati a dover rinunciare all’orario canonico d’inizio match. Ora c’e’ il calcio d’inizio all’ora di pranzo del sabato, ma non solo. Il turno si completa con altri posticipi rarefatti tra il tardo pomeriggio del sabato stesso, la domenica e la sera del lunedì – anche se il Monday Night non è una regola fissa. Eppure c’è un dettaglio che forse troppo spesso viene ignorato o sottovalutato: a fronte di quattro, massimo cinque partite della Premier trasmesse in diretta televisiva, per vedere tutte le altre non rimane che munirsi di biglietto di ingresso allo stadio. Alle 15 di sabato pomeriggio Sky, Setanta, la BBC o chi per loro non mandano in onda alcun match di nessuna divisione professionistica inglese. Un’altra buona ragione per cui gli impianti di provincia o delle grandi città sono tutti o quasi pieni.
Non è un caso, infatti, che per la maggioranza dei club inglesi le tre principali fonti di guadagno, ovvero tv, biglietti e merchandising, sono alquanto bilanciate, mentre ad esempio in Italia alcuni club dipendono fin troppo dagli introiti derivanti dai diritti televisivi. Non ci vuole un genio per capire che così le società sono meno soggette agli sbalzi d’umore del mercato. Nello sfruttamento del merchandising, poi, il calcio d’oltre Manica è sempre stato all’avanguardia, occupando subito le consistenti fette del mercato asiatico – dove la Premier può contare su milioni di appassionati.
Sul campo le squadre di Premier, o meglio le Top Four (Manchester United, Chelsea, Liverpool e Arsenal), dominano perché possono disporre di rose di altissimo livello grazie all’immensa disponibilità economica che garantisce un campionato come la Premier. Però va tenuto in debita considerazione il fattore giovani. Compagini come Arsenal e Manchester United – ovvero le più vincenti degli ultimi 15 anni – puntano moltissimo sui talenti in erba, siano essi “prodotti locali” o importati in tenerissima età dall’estero. Negli anni Novanta il primo United vincente di Sir Alex puntava sì sulla classe di Eric Cantona, ma anche su gente come Ryan Giggs, Paul Scholes, i fratelli Neville, David Beckham, tutti usciti dall’Academy. Ora le promesse si chiamano Danny Welbeck, Jonny Evans e Darron Gibson, questi ultimi due già protagonisti anche in Champions League.
I Gunners dispongono forse della miglior batteria di talent scout del pianeta, e si vede. Il club di Londra Nord è stato così bravo da riuscire a strappare un talento come Cesc Fabregas niente meno che al Barcellona. Affidandosi ai giovani, l’Arsenal ha potuto costruirsi uno stadio più grande del mitico ma vetusto Highbury e in prospettiva i suoi introiti aumenteranno in maniera sensibile. Gli stessi Liverpool e Chelsea hanno come giocatori più rappresentativi alcuni prodotti del vivaio (Jamie Carragher, Steven Gerrard da una parte, John Terry dall’altra).
Un ruolo fondamentale nella qualità del gioco dei team inglesi, è innegabile, lo svolgono i calciatori stranieri. La Premier ne importa ogni anno decine, ma se negli anni Novanta oltre Manica approdavano campioni un po’ bolliti, o comunque sul viale del tramonto come Fabrizio Ravanelli, Marcel Desailly e Ruud Gullit, ora si punta forte sui “prospetti” di qualità. Discorso valido per i vari Cristiano Ronaldo, Michael Essien e in parte anche per Fernando Torres, che ha avuto la sua definitiva affermazione dalle parti di Anfield Road.
Quasi più dei calciatori hanno inciso nella mentalità e nel gioco i tecnici stranieri. Arsene Wenger, Josè Mourinho, Rafa Benitez, ma anche Claudio Ranieri, Gerard Houllier e Luca Vialli. Tutta gente che ha fatto crescere il livello tattico dei team inglesi, spesso cooptando le “parti buone” del football locale. Inoltre hanno introdotto migliorie significative nei metodi di allenamento e rivoluzionato in positivo i criteri di alimentazione. Niente più overdose di bistecche e hamburger, ma tanta pasta, siamo inglesi! Manager britannici come Sir Alex Ferguson hanno iniziato ad adottare tattiche più “continentali” (per non dire catenacciare), soprattutto in Champions League – vedi la semifinale di andata dello scorso anno contro il Barcellona.
Gli stranieri, intesi come proprietari, sono arrivati per ultimi e sulla scia del successo planetario della Premier. I soldi di Roman Abramovich hanno fatto grande il Chelsea, mentre quelli degli sceicchi forse faranno finalmente vincere il Manchester City, ma non sono il motivo principale del successo del movimento inglese.
Il prodotto Premier ha le sue controindicazioni, i suoi effetti collaterali. Il più discutibile è quello che riguarda la nazionale. I Tre Leoni falliscono a causa dei troppi stranieri? La situazione degli anni Settanta era speculare all’attuale: la nazionale non si qualificò per i mondiali del 1974 e del 1978, mentre i club inglesi dominavano in Europa, con la differenza che nelle loro fila non avevano stranieri (sebbene abbondassero scozzesi, gallesi e irlandesi). Il team attualmente guidato da Fabio Capello dispone di grandi talenti e molti giovani, sebbene sia scoperto in qualche ruolo, come il portiere. I precedenti flop della nazionale sono spesso stati causati dall’inadeguatezza degli allenatori locali, vero punto debole del calcio inglese negli ultimi decenni.
Altro aspetto controverso: vincono sempre le stesse. Per la verità anche negli anni Settanta e Ottanta c’era una squadra dominante (il Liverpool) e alle altre non rimanevano che le briciole, però c’era più equilibrio. A contendersi il titolo potevano essere QPR e Watford, piuttosto che Arsenal e Manchester United. E poi a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta ci fu la favola del Nottingham, neopromossa prima capace di vincere la vecchia Division One e poi due Coppe dei Campioni consecutive. Ieri, come oggi, gli inglesi dominavano in Europa.
Forse la spiegazione più semplice e allo stesso tempo veritiera di tutti questi trionfi l’ha fornita di recente Paolo Di Canio in un’intervista rilasciata al Giornale: “vincono perché sono normali”. Intendiamoci, la pressione esiste anche al di là della Manica e i media parlano sempre più di football, specialmente dopo la comparsa in forze di Sky all’inizio degli anni Novanta. Solo, gli inglesi hanno un maggiore senso della misura e una cultura sportiva che altrove si sognano, per cui una partita di calcio non acquisisce significati che trascendono l’ambito sportivo. Seppure con troppe venature “commerciali”, da loro il football è ancora “the beautiful game”.
Pubblicato su Calcio 2000 di questo mese.
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