mercoledì 29 aprile 2009
Assenza giustificata...
..."causa" nascita secondo figlio. Ieri sera per stare con lui e la mamma mi sono perso pure la semifinale di Champions League, che però a quanto ho letto non è stata memorabile. Attenzione a Guus Hiddink, uno che la sa molto lunga...
venerdì 17 aprile 2009
Una trasferta di troppo
La decisione di giocare le due semifinali della FA Cup a Wembley già lo scorso anno ha ricevuto la sua abbondante dose di critiche, soprattutto perché in questo modo si va a far benedire l’unicità dell’episodio conclusivo della competizione, il fascino di “raggiungere” la terra promessa dello stadio nazionale. Sono perfettamente d’accordo con chi ha storto il naso la passata stagione e penso che l’insensatezza di tale provvedimento – dettato da necessità meramente economiche – sia ancora più evidente proprio quest’anno. In tempi di crisi come quelli attuali, che senso ha far spostare due tifoserie del Lancashire (Manchester United ed Everton) fino a Londra? Di sedi alternative, più comode ed economiche da raggiungere, se ne potevano trovare molte altre (Anfield Road, City of Manchester Stadium, Villa Park, tanto per citarne alcune).
giovedì 16 aprile 2009
Il Subbuteo Fair a Verona
C'è il calcio a grandezza naturale, ed il calcio in miniatura. Sì, esiste da sempre, esattamente dal 1947 il Subbuteo, da quando l'inglese Peter Adolph decise di creare dei giocatori in miniatura. A Verona così dal 17 aprile al 9 maggio ci sarà una mostra fotografica dell'artista svedese Charlotte Smeds dal nome "Flick about". Sarà tenuta presso la Biblioteca Civica della città, e vedrà tra le altre la partecipazione del Chievo Verona Calcio e dell'Hellas Verona. E non è tutto: perchè sabato 18 ci sarà un convegno per fare il punto della situazione sul ruolo del calcio nella società moderna: "Una commissione presieduta da ex calciatori italiani degli anni Sessanta e Settanta - racconta Fabrizio Ghilardi, ideatore del progetto europeo “Fair Play in Action - ha eletto questo indimenticabile gioco quale esempio più alto di comunicazione per operare una rilettura storico-sociale del Football. Parliamo di Subbuteo per rilanciare il Gioco del Calcio e offrire di esso un’immagine pulita attraverso una rilettura storico-sociale del Football". Tra gli invitati illustri che parteciperanno? Boninsegna, Osvaldo Bagnoli, Zigoni e tanti altri...
martedì 14 aprile 2009
Hillsborough, 20 anni fa
Gli anni Ottanta hanno rappresentato il decennio più nero della storia del calcio inglese. La violenza dei tifosi, che ebbe il suo culmine con i fatti dell’Heysel nel maggio del 1985, e l’inadeguatezza degli stadi e dell’intero sistema di gestione del football d’oltre Manica finirono per punteggiare di lutti un periodo di per sé ricco di tensioni sociali.
Il beautiful game trova il suo nadir un sabato d’aprile a Sheffield, dove è in programma la semifinale di FA Cup tra Liverpool e Nottingham Forest.
Quel fatidico 15 aprile del 1989 fin dal mattino l’autostrada M62 è un’unica lunga fila di macchine, il traffico è congestionato a causa di una serie di lavori in corso, per cui l’arrivo a Sheffield per moltissimi tifosi avviene più tardi del previsto. In tanti allora si accalcano a ridosso delle entrate dell’Hillsborough Stadium, l’impianto del Wednesday scelto come sede del match. Il servizio d’ordine latita. Come se non bastasse, per accedere alla Leppings Lane, la gradinata destinata ai supporter dei Reds, ci sono solo sette tornelli.
In via del tutto ipotetica quel settore di Hillsborough dovrebbe contenere fino a 10mila tifosi, sebbene la suddivisione in sette spicchi recintati, voluta anni prima dalla polizia per controllare meglio i flussi della folla, riduca la capienza, contribuendo a creare delle specie di lugubri e gigantesche gabbie. Ma questo elemento, allorché furono venduti i biglietti, non fu preso in considerazione. La gradinata inizia a ingrossarsi come un fiume in piena ma colpevolmente nessuno pensa a convogliare i tifosi lì dove c’è maggiore spazio e disponibilità di posti. Man mano che passano i minuti in tanti finiscono per essere schiacciati contro la rete di protezione. La trappola mortale è scattata. Nonostante la situazione già fuori controllo, le forze dell’ordine non trovano niente di meglio da fare che chiudere una porticina che dà un minimo di accesso al campo, aperta in qualche modo da alcuni tifosi. I poliziotti sono accecati dalla paura degli hooligans e inizialmente spingono indietro i gruppetti di fan del Liverpool che sono riusciti a salvarsi entrando sul terreno di gioco, a partita iniziata da una manciata da minuti. Solo in un secondo momento un agente si rende conto dell’immane tragedia che si sta consumando davanti ai suoi occhi e facilita l’ingresso in campo di decine di disperati, il cui intento è tutt’altro che bellicoso. Cercano solo di salvarsi la vita. Qualcuno viene tirato su a braccia verso il secondo piano della Leppings Lane, evitando il peggio. Molti non ce la fanno, morendo soffocati in un magma infernale di corpi. Scorrendo l’elenco delle vittime ciò che colpisce di più è la giovane età di tanti dei 96 che persero la vita in quella maledetta curva.
Le colpe della mattanza sono da ascrivere alla mancanza di sicurezza dello stadio e alla pessima gestione dell’ordine pubblico da parte della polizia e degli addetti ai lavori. Oltre, ovviamente, alla vetustà e all’inadeguatezza dell’impianto, fornito di recinzioni in ferro che segnarono per sempre il destino di quasi cento persone.
La Green Guide del 1973, realizzata dopo il disastro di Ibrox Park del 1971, obbligava i club ad avere un certificato di sicurezza per gli stadi. Quello dello Sheffield Wednesday per Hillsborough era scaduto da dieci anni, senza che nessuno tra i dirigenti delle Owls se ne fosse fatto un cruccio. Eppure c’era già un precedente inquietante di soli otto anni prima, quando durante la semifinale di FA Cup tra Tottenham e Wolverhampton alcuni tifosi rimasero feriti a causa della ressa su quelle stesse gradinate.
Alcuni alti dirigenti delle forze dell’ordine provarono ad influenzare l’esito dell’indagine, coprendo così le loro colpe. Alla fine nel 1991 la giuria stabilì che l’incidente era occorso per cause accidentali; le manchevolezze del club e dei vertici della polizia furono stigmatizzate solo in maniera molto blanda. A nulla servirono i ricorsi contro la sentenza e le richieste inoltrate al governo affinché fossero riaperte le indagini. La Hillsborough Justice Campaign, costituita dai parenti delle vittime e dai sopravvissuti, sta ancora combattendo strenuamente affinché sia fatta piena luce su quei terribili fatti. Ma ogni anno che passa le speranze si assottigliano.
Nel 1989 il dramma di Sheffield mise sotto shock un Paese intero. La solidarietà e la partecipazione della grande famiglia dei tifosi fu unanime. Per molti giorni il manto erboso e le tribune di Anfield Road furono ricoperte da un tappeto multicolore di sciarpe e bandiere di centinaia di squadre britanniche, a riprova di un lutto sentito e condiviso da tutta la comunità del football.
Dopo però si dovette tornare a giocare. Il Liverpool si sbarazzò del Nottingham e raggiunse la finale di Wembley dove, ironia della sorte, ad attendere i Reds c’erano i cugini dell’Everton. Per una volta le due tifoserie, divise dalla classica rivalità stracittadina, si univano nel ricordo di un pomeriggio di dolore che aveva colpito Liverpool, a prescindere dai colori che si indossavano. Come è ovvio che fosse, quel derby fu un match molto, molto particolare. Sugli spalti dell’Empire Stadium tra i 100.000 presenti regnava un’atmosfera dimessa, di grande commozione. In campo le due squadre fecero di tutto per onorare la memoria di chi non c’era più. La sfida fu bella, vibrante, piena di capovolgimenti di fronte, con l’Everton sempre a rincorrere, per poi finire sconfitto 3-2 nei supplementari. L’eroe di quella strana partita fu Ian Rush, che segnò una doppietta partendo dalla panchina. Suo fu anche il gol decisivo marcato al 103’.
Poi quel Liverpool, che stava per imboccare la via del declino dopo aver dettato legge per tutti gli anni Ottanta, fallì l’impresa del double, la doppietta coppa-campionato, perdendo ad Anfield nel famosissimo match con l’Arsenal immortalato da Nick Hornby nel suo Fever Pitch. Michael Thomas divenne The History Man allorché trafisse Bruce Grobbelaar a pochi secondi dal fischio finale, così da regalare ai Gunners la più incredibile delle vittorie in campionato. Ma per i kopites, coloro che avevano eletto come domicilio della loro fede la Kop, e tutti gli altri fan del Liverpool quella non fu una sciagura. Le sciagure, purtroppo, erano ben altre.
Il beautiful game trova il suo nadir un sabato d’aprile a Sheffield, dove è in programma la semifinale di FA Cup tra Liverpool e Nottingham Forest.
Quel fatidico 15 aprile del 1989 fin dal mattino l’autostrada M62 è un’unica lunga fila di macchine, il traffico è congestionato a causa di una serie di lavori in corso, per cui l’arrivo a Sheffield per moltissimi tifosi avviene più tardi del previsto. In tanti allora si accalcano a ridosso delle entrate dell’Hillsborough Stadium, l’impianto del Wednesday scelto come sede del match. Il servizio d’ordine latita. Come se non bastasse, per accedere alla Leppings Lane, la gradinata destinata ai supporter dei Reds, ci sono solo sette tornelli.
In via del tutto ipotetica quel settore di Hillsborough dovrebbe contenere fino a 10mila tifosi, sebbene la suddivisione in sette spicchi recintati, voluta anni prima dalla polizia per controllare meglio i flussi della folla, riduca la capienza, contribuendo a creare delle specie di lugubri e gigantesche gabbie. Ma questo elemento, allorché furono venduti i biglietti, non fu preso in considerazione. La gradinata inizia a ingrossarsi come un fiume in piena ma colpevolmente nessuno pensa a convogliare i tifosi lì dove c’è maggiore spazio e disponibilità di posti. Man mano che passano i minuti in tanti finiscono per essere schiacciati contro la rete di protezione. La trappola mortale è scattata. Nonostante la situazione già fuori controllo, le forze dell’ordine non trovano niente di meglio da fare che chiudere una porticina che dà un minimo di accesso al campo, aperta in qualche modo da alcuni tifosi. I poliziotti sono accecati dalla paura degli hooligans e inizialmente spingono indietro i gruppetti di fan del Liverpool che sono riusciti a salvarsi entrando sul terreno di gioco, a partita iniziata da una manciata da minuti. Solo in un secondo momento un agente si rende conto dell’immane tragedia che si sta consumando davanti ai suoi occhi e facilita l’ingresso in campo di decine di disperati, il cui intento è tutt’altro che bellicoso. Cercano solo di salvarsi la vita. Qualcuno viene tirato su a braccia verso il secondo piano della Leppings Lane, evitando il peggio. Molti non ce la fanno, morendo soffocati in un magma infernale di corpi. Scorrendo l’elenco delle vittime ciò che colpisce di più è la giovane età di tanti dei 96 che persero la vita in quella maledetta curva.
Le colpe della mattanza sono da ascrivere alla mancanza di sicurezza dello stadio e alla pessima gestione dell’ordine pubblico da parte della polizia e degli addetti ai lavori. Oltre, ovviamente, alla vetustà e all’inadeguatezza dell’impianto, fornito di recinzioni in ferro che segnarono per sempre il destino di quasi cento persone.
La Green Guide del 1973, realizzata dopo il disastro di Ibrox Park del 1971, obbligava i club ad avere un certificato di sicurezza per gli stadi. Quello dello Sheffield Wednesday per Hillsborough era scaduto da dieci anni, senza che nessuno tra i dirigenti delle Owls se ne fosse fatto un cruccio. Eppure c’era già un precedente inquietante di soli otto anni prima, quando durante la semifinale di FA Cup tra Tottenham e Wolverhampton alcuni tifosi rimasero feriti a causa della ressa su quelle stesse gradinate.
Alcuni alti dirigenti delle forze dell’ordine provarono ad influenzare l’esito dell’indagine, coprendo così le loro colpe. Alla fine nel 1991 la giuria stabilì che l’incidente era occorso per cause accidentali; le manchevolezze del club e dei vertici della polizia furono stigmatizzate solo in maniera molto blanda. A nulla servirono i ricorsi contro la sentenza e le richieste inoltrate al governo affinché fossero riaperte le indagini. La Hillsborough Justice Campaign, costituita dai parenti delle vittime e dai sopravvissuti, sta ancora combattendo strenuamente affinché sia fatta piena luce su quei terribili fatti. Ma ogni anno che passa le speranze si assottigliano.
Nel 1989 il dramma di Sheffield mise sotto shock un Paese intero. La solidarietà e la partecipazione della grande famiglia dei tifosi fu unanime. Per molti giorni il manto erboso e le tribune di Anfield Road furono ricoperte da un tappeto multicolore di sciarpe e bandiere di centinaia di squadre britanniche, a riprova di un lutto sentito e condiviso da tutta la comunità del football.
Dopo però si dovette tornare a giocare. Il Liverpool si sbarazzò del Nottingham e raggiunse la finale di Wembley dove, ironia della sorte, ad attendere i Reds c’erano i cugini dell’Everton. Per una volta le due tifoserie, divise dalla classica rivalità stracittadina, si univano nel ricordo di un pomeriggio di dolore che aveva colpito Liverpool, a prescindere dai colori che si indossavano. Come è ovvio che fosse, quel derby fu un match molto, molto particolare. Sugli spalti dell’Empire Stadium tra i 100.000 presenti regnava un’atmosfera dimessa, di grande commozione. In campo le due squadre fecero di tutto per onorare la memoria di chi non c’era più. La sfida fu bella, vibrante, piena di capovolgimenti di fronte, con l’Everton sempre a rincorrere, per poi finire sconfitto 3-2 nei supplementari. L’eroe di quella strana partita fu Ian Rush, che segnò una doppietta partendo dalla panchina. Suo fu anche il gol decisivo marcato al 103’.
Poi quel Liverpool, che stava per imboccare la via del declino dopo aver dettato legge per tutti gli anni Ottanta, fallì l’impresa del double, la doppietta coppa-campionato, perdendo ad Anfield nel famosissimo match con l’Arsenal immortalato da Nick Hornby nel suo Fever Pitch. Michael Thomas divenne The History Man allorché trafisse Bruce Grobbelaar a pochi secondi dal fischio finale, così da regalare ai Gunners la più incredibile delle vittorie in campionato. Ma per i kopites, coloro che avevano eletto come domicilio della loro fede la Kop, e tutti gli altri fan del Liverpool quella non fu una sciagura. Le sciagure, purtroppo, erano ben altre.
sabato 11 aprile 2009
Perché il calcio inglese è vincente
Stadi fatiscenti, la violenza dilagante degli hooligans, un campionato mediocre e le squadre escluse dalle competizioni europee. Alla fine degli anni Ottanta questo era lo sconfortante panorama del calcio inglese. Dopo la tragica notte dell’Heysel, nel 1985, il nadir si toccò in un caldo sabato della metà di aprile di 20 anni fa, a Sheffield. In occasione della semifinale di Coppa d’Inghilterra tra Liverpool e Nottingham Forest, 96 tifosi dei Reds persero la vita nella Leppings Lane dell’ormai tristemente noto Hillsborough Stadium. Le cause del più grande dramma della storia del calcio britannico? Un impianto obsoleto, una pessima gestione del servizio d’ordine e una condotta inadeguata da parte delle forze dell’ordine, ossessionate dal pericolo hooligans e incapaci di comprendere quale immensa tragedia si stesse svolgendo davanti ai propri occhi.
Peggio di così il football dei Maestri non poteva proprio andare, tanto che risalire la china sembrò a tutti impresa improba. Eppure si compì nell’arco di pochi anni. Quello che, banalizzando all’estremo, noi italiani definiamo il “modello inglese” si realizzò attraverso un processo di stratificazione non sempre omogenea e lineare. La sostanza è che ora (alcune) squadre dominano in Europa, gli stadi sono nuovissimi, sicuri e quasi sempre pieni, la violenza ridotta al minimo e il prodotto “english football” esportato in tutto il mondo.
I sudditi della regina hanno saputo imparare dai marchiani errori del passato. Il rapporto che fece seguito al dramma dell’Hillsborough, ormai conosciuto come Taylor report dal nome del giudice che presiedeva la commissione d’inchiesta, stabilì una serie di regole auree su come rimodernare gli stadi e gestire l’ordine pubblico prima, durante e dopo un match. Nelle arene dei team delle prime due divisioni professionistiche dovevano scomparire le terraces, le folkloristiche gradinate, e tutti i posti dovevano essere a sedere. Via anche le recinzioni, una delle cause dei fatti di Sheffield.
Il governo si mosse su diversi fronti, mettendo a disposizione un fondo per il restyling degli impianti e promulgando delle normative molto severe contro la violenza nel calcio. In merito a questo ultimo punto in tanti pensano che sia stata la signora Thatcher quella che più ha usato il pugno di ferro contro il teppismo negli stadi, ma in realtà le leggi più repressive le ha adottate il primo esecutivo Blair, in particolare con il Football Disorder Act (2000). La normativa garantisce alle forze dell’ordine il potere di chiedere a un magistrato di impedire in via preventiva, ovvero anche in mancanza di una precedente condanna, che un tifoso possa andare a vedere a una partita di calcio, sia sul territorio inglese che all’estero. Il nodo cruciale del dettato normativo sta tutto nell’ampio margine di discrezionalità conferito ai tutori della legge.
La repressione delle forze dell’ordine, le normative draconiane, gli stewards ben addestrati e sufficientemente responsabilizzati, l’occhio sempre attento delle telecamere a circuito chiuso, la scomparsa delle gradinate e, in maniera secondaria, l’innalzamento del costo dei biglietti. Questi, per riepilogare, gli ingredienti della ricetta impiegata per estirpare l’erba cattiva dell’hooliganismo.
In presenza di stadi più moderni e sicuri e dove i violenti non facevano più il bello e il cattivo tempo, i tifosi tornarono ad affollare gli spalti. La stagione 1985-86, quella del post Heysel, fece registrare la media spettatori più bassa dal secondo dopo-guerra. In totale si contarono solo 16,5 milioni di presenze. Ma già nel 1996 i tifosi negli stadi furono 21,8 milioni, con un incremento del 32%, mentre nel 2004 si arrivò a 29 milioni.
In via di risoluzione le questioni stadi e violenza, bisognava risollevare le sorti sportive delle squadre inglesi, riammesse in Europa nel 1990 dopo quattro stagioni di bando totale. L’annoso conflitto tra la Football Association e la Football League fece da sfondo alla nascita della Premier League, la lega dei più forti e, di lì a breve, dei più ricchi.
Approfittando del revival in atto, i vertici della Premier spuntarono un lucroso contratto televisivo con la rete satellitare di Rupert Murdoch, che con il football riuscì a decollare dopo i primi anni di vacche magre. Al primo accordo quinquennale ne hanno fatti seguito altri quattro, con le cifre che sono quasi sempre cresciute in maniera esponenziale, passando da 191 milioni di sterline fino alla recentissima intesa per il periodo 2010-2013 che prevede un ammontare di 1,7 miliardi di sterline.
I milioni di Sky, e dal 2006 anche di Setanta Sport, a tutt’oggi vanno divisi per il 50% in parti uguali, per il 25% in base alle apparizioni televisive (da scegliere secondo l’andamento del campionato), mentre il restante 25% dipende dal piazzamento finale in classifica. Un buon incentivo per giocarsi anche un’apparentemente inutile ultima di campionato per decidere un decimo piuttosto che un undicesimo posto.
Così come nel resto d’Europa, anche in Inghilterra spesso i frequentatori di stadi si sono abituati a dover rinunciare all’orario canonico d’inizio match. Ora c’e’ il calcio d’inizio all’ora di pranzo del sabato, ma non solo. Il turno si completa con altri posticipi rarefatti tra il tardo pomeriggio del sabato stesso, la domenica e la sera del lunedì – anche se il Monday Night non è una regola fissa. Eppure c’è un dettaglio che forse troppo spesso viene ignorato o sottovalutato: a fronte di quattro, massimo cinque partite della Premier trasmesse in diretta televisiva, per vedere tutte le altre non rimane che munirsi di biglietto di ingresso allo stadio. Alle 15 di sabato pomeriggio Sky, Setanta, la BBC o chi per loro non mandano in onda alcun match di nessuna divisione professionistica inglese. Un’altra buona ragione per cui gli impianti di provincia o delle grandi città sono tutti o quasi pieni.
Non è un caso, infatti, che per la maggioranza dei club inglesi le tre principali fonti di guadagno, ovvero tv, biglietti e merchandising, sono alquanto bilanciate, mentre ad esempio in Italia alcuni club dipendono fin troppo dagli introiti derivanti dai diritti televisivi. Non ci vuole un genio per capire che così le società sono meno soggette agli sbalzi d’umore del mercato. Nello sfruttamento del merchandising, poi, il calcio d’oltre Manica è sempre stato all’avanguardia, occupando subito le consistenti fette del mercato asiatico – dove la Premier può contare su milioni di appassionati.
Sul campo le squadre di Premier, o meglio le Top Four (Manchester United, Chelsea, Liverpool e Arsenal), dominano perché possono disporre di rose di altissimo livello grazie all’immensa disponibilità economica che garantisce un campionato come la Premier. Però va tenuto in debita considerazione il fattore giovani. Compagini come Arsenal e Manchester United – ovvero le più vincenti degli ultimi 15 anni – puntano moltissimo sui talenti in erba, siano essi “prodotti locali” o importati in tenerissima età dall’estero. Negli anni Novanta il primo United vincente di Sir Alex puntava sì sulla classe di Eric Cantona, ma anche su gente come Ryan Giggs, Paul Scholes, i fratelli Neville, David Beckham, tutti usciti dall’Academy. Ora le promesse si chiamano Danny Welbeck, Jonny Evans e Darron Gibson, questi ultimi due già protagonisti anche in Champions League.
I Gunners dispongono forse della miglior batteria di talent scout del pianeta, e si vede. Il club di Londra Nord è stato così bravo da riuscire a strappare un talento come Cesc Fabregas niente meno che al Barcellona. Affidandosi ai giovani, l’Arsenal ha potuto costruirsi uno stadio più grande del mitico ma vetusto Highbury e in prospettiva i suoi introiti aumenteranno in maniera sensibile. Gli stessi Liverpool e Chelsea hanno come giocatori più rappresentativi alcuni prodotti del vivaio (Jamie Carragher, Steven Gerrard da una parte, John Terry dall’altra).
Un ruolo fondamentale nella qualità del gioco dei team inglesi, è innegabile, lo svolgono i calciatori stranieri. La Premier ne importa ogni anno decine, ma se negli anni Novanta oltre Manica approdavano campioni un po’ bolliti, o comunque sul viale del tramonto come Fabrizio Ravanelli, Marcel Desailly e Ruud Gullit, ora si punta forte sui “prospetti” di qualità. Discorso valido per i vari Cristiano Ronaldo, Michael Essien e in parte anche per Fernando Torres, che ha avuto la sua definitiva affermazione dalle parti di Anfield Road.
Quasi più dei calciatori hanno inciso nella mentalità e nel gioco i tecnici stranieri. Arsene Wenger, Josè Mourinho, Rafa Benitez, ma anche Claudio Ranieri, Gerard Houllier e Luca Vialli. Tutta gente che ha fatto crescere il livello tattico dei team inglesi, spesso cooptando le “parti buone” del football locale. Inoltre hanno introdotto migliorie significative nei metodi di allenamento e rivoluzionato in positivo i criteri di alimentazione. Niente più overdose di bistecche e hamburger, ma tanta pasta, siamo inglesi! Manager britannici come Sir Alex Ferguson hanno iniziato ad adottare tattiche più “continentali” (per non dire catenacciare), soprattutto in Champions League – vedi la semifinale di andata dello scorso anno contro il Barcellona.
Gli stranieri, intesi come proprietari, sono arrivati per ultimi e sulla scia del successo planetario della Premier. I soldi di Roman Abramovich hanno fatto grande il Chelsea, mentre quelli degli sceicchi forse faranno finalmente vincere il Manchester City, ma non sono il motivo principale del successo del movimento inglese.
Il prodotto Premier ha le sue controindicazioni, i suoi effetti collaterali. Il più discutibile è quello che riguarda la nazionale. I Tre Leoni falliscono a causa dei troppi stranieri? La situazione degli anni Settanta era speculare all’attuale: la nazionale non si qualificò per i mondiali del 1974 e del 1978, mentre i club inglesi dominavano in Europa, con la differenza che nelle loro fila non avevano stranieri (sebbene abbondassero scozzesi, gallesi e irlandesi). Il team attualmente guidato da Fabio Capello dispone di grandi talenti e molti giovani, sebbene sia scoperto in qualche ruolo, come il portiere. I precedenti flop della nazionale sono spesso stati causati dall’inadeguatezza degli allenatori locali, vero punto debole del calcio inglese negli ultimi decenni.
Altro aspetto controverso: vincono sempre le stesse. Per la verità anche negli anni Settanta e Ottanta c’era una squadra dominante (il Liverpool) e alle altre non rimanevano che le briciole, però c’era più equilibrio. A contendersi il titolo potevano essere QPR e Watford, piuttosto che Arsenal e Manchester United. E poi a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta ci fu la favola del Nottingham, neopromossa prima capace di vincere la vecchia Division One e poi due Coppe dei Campioni consecutive. Ieri, come oggi, gli inglesi dominavano in Europa.
Forse la spiegazione più semplice e allo stesso tempo veritiera di tutti questi trionfi l’ha fornita di recente Paolo Di Canio in un’intervista rilasciata al Giornale: “vincono perché sono normali”. Intendiamoci, la pressione esiste anche al di là della Manica e i media parlano sempre più di football, specialmente dopo la comparsa in forze di Sky all’inizio degli anni Novanta. Solo, gli inglesi hanno un maggiore senso della misura e una cultura sportiva che altrove si sognano, per cui una partita di calcio non acquisisce significati che trascendono l’ambito sportivo. Seppure con troppe venature “commerciali”, da loro il football è ancora “the beautiful game”.
Pubblicato su Calcio 2000 di questo mese.
Peggio di così il football dei Maestri non poteva proprio andare, tanto che risalire la china sembrò a tutti impresa improba. Eppure si compì nell’arco di pochi anni. Quello che, banalizzando all’estremo, noi italiani definiamo il “modello inglese” si realizzò attraverso un processo di stratificazione non sempre omogenea e lineare. La sostanza è che ora (alcune) squadre dominano in Europa, gli stadi sono nuovissimi, sicuri e quasi sempre pieni, la violenza ridotta al minimo e il prodotto “english football” esportato in tutto il mondo.
I sudditi della regina hanno saputo imparare dai marchiani errori del passato. Il rapporto che fece seguito al dramma dell’Hillsborough, ormai conosciuto come Taylor report dal nome del giudice che presiedeva la commissione d’inchiesta, stabilì una serie di regole auree su come rimodernare gli stadi e gestire l’ordine pubblico prima, durante e dopo un match. Nelle arene dei team delle prime due divisioni professionistiche dovevano scomparire le terraces, le folkloristiche gradinate, e tutti i posti dovevano essere a sedere. Via anche le recinzioni, una delle cause dei fatti di Sheffield.
Il governo si mosse su diversi fronti, mettendo a disposizione un fondo per il restyling degli impianti e promulgando delle normative molto severe contro la violenza nel calcio. In merito a questo ultimo punto in tanti pensano che sia stata la signora Thatcher quella che più ha usato il pugno di ferro contro il teppismo negli stadi, ma in realtà le leggi più repressive le ha adottate il primo esecutivo Blair, in particolare con il Football Disorder Act (2000). La normativa garantisce alle forze dell’ordine il potere di chiedere a un magistrato di impedire in via preventiva, ovvero anche in mancanza di una precedente condanna, che un tifoso possa andare a vedere a una partita di calcio, sia sul territorio inglese che all’estero. Il nodo cruciale del dettato normativo sta tutto nell’ampio margine di discrezionalità conferito ai tutori della legge.
La repressione delle forze dell’ordine, le normative draconiane, gli stewards ben addestrati e sufficientemente responsabilizzati, l’occhio sempre attento delle telecamere a circuito chiuso, la scomparsa delle gradinate e, in maniera secondaria, l’innalzamento del costo dei biglietti. Questi, per riepilogare, gli ingredienti della ricetta impiegata per estirpare l’erba cattiva dell’hooliganismo.
In presenza di stadi più moderni e sicuri e dove i violenti non facevano più il bello e il cattivo tempo, i tifosi tornarono ad affollare gli spalti. La stagione 1985-86, quella del post Heysel, fece registrare la media spettatori più bassa dal secondo dopo-guerra. In totale si contarono solo 16,5 milioni di presenze. Ma già nel 1996 i tifosi negli stadi furono 21,8 milioni, con un incremento del 32%, mentre nel 2004 si arrivò a 29 milioni.
In via di risoluzione le questioni stadi e violenza, bisognava risollevare le sorti sportive delle squadre inglesi, riammesse in Europa nel 1990 dopo quattro stagioni di bando totale. L’annoso conflitto tra la Football Association e la Football League fece da sfondo alla nascita della Premier League, la lega dei più forti e, di lì a breve, dei più ricchi.
Approfittando del revival in atto, i vertici della Premier spuntarono un lucroso contratto televisivo con la rete satellitare di Rupert Murdoch, che con il football riuscì a decollare dopo i primi anni di vacche magre. Al primo accordo quinquennale ne hanno fatti seguito altri quattro, con le cifre che sono quasi sempre cresciute in maniera esponenziale, passando da 191 milioni di sterline fino alla recentissima intesa per il periodo 2010-2013 che prevede un ammontare di 1,7 miliardi di sterline.
I milioni di Sky, e dal 2006 anche di Setanta Sport, a tutt’oggi vanno divisi per il 50% in parti uguali, per il 25% in base alle apparizioni televisive (da scegliere secondo l’andamento del campionato), mentre il restante 25% dipende dal piazzamento finale in classifica. Un buon incentivo per giocarsi anche un’apparentemente inutile ultima di campionato per decidere un decimo piuttosto che un undicesimo posto.
Così come nel resto d’Europa, anche in Inghilterra spesso i frequentatori di stadi si sono abituati a dover rinunciare all’orario canonico d’inizio match. Ora c’e’ il calcio d’inizio all’ora di pranzo del sabato, ma non solo. Il turno si completa con altri posticipi rarefatti tra il tardo pomeriggio del sabato stesso, la domenica e la sera del lunedì – anche se il Monday Night non è una regola fissa. Eppure c’è un dettaglio che forse troppo spesso viene ignorato o sottovalutato: a fronte di quattro, massimo cinque partite della Premier trasmesse in diretta televisiva, per vedere tutte le altre non rimane che munirsi di biglietto di ingresso allo stadio. Alle 15 di sabato pomeriggio Sky, Setanta, la BBC o chi per loro non mandano in onda alcun match di nessuna divisione professionistica inglese. Un’altra buona ragione per cui gli impianti di provincia o delle grandi città sono tutti o quasi pieni.
Non è un caso, infatti, che per la maggioranza dei club inglesi le tre principali fonti di guadagno, ovvero tv, biglietti e merchandising, sono alquanto bilanciate, mentre ad esempio in Italia alcuni club dipendono fin troppo dagli introiti derivanti dai diritti televisivi. Non ci vuole un genio per capire che così le società sono meno soggette agli sbalzi d’umore del mercato. Nello sfruttamento del merchandising, poi, il calcio d’oltre Manica è sempre stato all’avanguardia, occupando subito le consistenti fette del mercato asiatico – dove la Premier può contare su milioni di appassionati.
Sul campo le squadre di Premier, o meglio le Top Four (Manchester United, Chelsea, Liverpool e Arsenal), dominano perché possono disporre di rose di altissimo livello grazie all’immensa disponibilità economica che garantisce un campionato come la Premier. Però va tenuto in debita considerazione il fattore giovani. Compagini come Arsenal e Manchester United – ovvero le più vincenti degli ultimi 15 anni – puntano moltissimo sui talenti in erba, siano essi “prodotti locali” o importati in tenerissima età dall’estero. Negli anni Novanta il primo United vincente di Sir Alex puntava sì sulla classe di Eric Cantona, ma anche su gente come Ryan Giggs, Paul Scholes, i fratelli Neville, David Beckham, tutti usciti dall’Academy. Ora le promesse si chiamano Danny Welbeck, Jonny Evans e Darron Gibson, questi ultimi due già protagonisti anche in Champions League.
I Gunners dispongono forse della miglior batteria di talent scout del pianeta, e si vede. Il club di Londra Nord è stato così bravo da riuscire a strappare un talento come Cesc Fabregas niente meno che al Barcellona. Affidandosi ai giovani, l’Arsenal ha potuto costruirsi uno stadio più grande del mitico ma vetusto Highbury e in prospettiva i suoi introiti aumenteranno in maniera sensibile. Gli stessi Liverpool e Chelsea hanno come giocatori più rappresentativi alcuni prodotti del vivaio (Jamie Carragher, Steven Gerrard da una parte, John Terry dall’altra).
Un ruolo fondamentale nella qualità del gioco dei team inglesi, è innegabile, lo svolgono i calciatori stranieri. La Premier ne importa ogni anno decine, ma se negli anni Novanta oltre Manica approdavano campioni un po’ bolliti, o comunque sul viale del tramonto come Fabrizio Ravanelli, Marcel Desailly e Ruud Gullit, ora si punta forte sui “prospetti” di qualità. Discorso valido per i vari Cristiano Ronaldo, Michael Essien e in parte anche per Fernando Torres, che ha avuto la sua definitiva affermazione dalle parti di Anfield Road.
Quasi più dei calciatori hanno inciso nella mentalità e nel gioco i tecnici stranieri. Arsene Wenger, Josè Mourinho, Rafa Benitez, ma anche Claudio Ranieri, Gerard Houllier e Luca Vialli. Tutta gente che ha fatto crescere il livello tattico dei team inglesi, spesso cooptando le “parti buone” del football locale. Inoltre hanno introdotto migliorie significative nei metodi di allenamento e rivoluzionato in positivo i criteri di alimentazione. Niente più overdose di bistecche e hamburger, ma tanta pasta, siamo inglesi! Manager britannici come Sir Alex Ferguson hanno iniziato ad adottare tattiche più “continentali” (per non dire catenacciare), soprattutto in Champions League – vedi la semifinale di andata dello scorso anno contro il Barcellona.
Gli stranieri, intesi come proprietari, sono arrivati per ultimi e sulla scia del successo planetario della Premier. I soldi di Roman Abramovich hanno fatto grande il Chelsea, mentre quelli degli sceicchi forse faranno finalmente vincere il Manchester City, ma non sono il motivo principale del successo del movimento inglese.
Il prodotto Premier ha le sue controindicazioni, i suoi effetti collaterali. Il più discutibile è quello che riguarda la nazionale. I Tre Leoni falliscono a causa dei troppi stranieri? La situazione degli anni Settanta era speculare all’attuale: la nazionale non si qualificò per i mondiali del 1974 e del 1978, mentre i club inglesi dominavano in Europa, con la differenza che nelle loro fila non avevano stranieri (sebbene abbondassero scozzesi, gallesi e irlandesi). Il team attualmente guidato da Fabio Capello dispone di grandi talenti e molti giovani, sebbene sia scoperto in qualche ruolo, come il portiere. I precedenti flop della nazionale sono spesso stati causati dall’inadeguatezza degli allenatori locali, vero punto debole del calcio inglese negli ultimi decenni.
Altro aspetto controverso: vincono sempre le stesse. Per la verità anche negli anni Settanta e Ottanta c’era una squadra dominante (il Liverpool) e alle altre non rimanevano che le briciole, però c’era più equilibrio. A contendersi il titolo potevano essere QPR e Watford, piuttosto che Arsenal e Manchester United. E poi a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta ci fu la favola del Nottingham, neopromossa prima capace di vincere la vecchia Division One e poi due Coppe dei Campioni consecutive. Ieri, come oggi, gli inglesi dominavano in Europa.
Forse la spiegazione più semplice e allo stesso tempo veritiera di tutti questi trionfi l’ha fornita di recente Paolo Di Canio in un’intervista rilasciata al Giornale: “vincono perché sono normali”. Intendiamoci, la pressione esiste anche al di là della Manica e i media parlano sempre più di football, specialmente dopo la comparsa in forze di Sky all’inizio degli anni Novanta. Solo, gli inglesi hanno un maggiore senso della misura e una cultura sportiva che altrove si sognano, per cui una partita di calcio non acquisisce significati che trascendono l’ambito sportivo. Seppure con troppe venature “commerciali”, da loro il football è ancora “the beautiful game”.
Pubblicato su Calcio 2000 di questo mese.
martedì 7 aprile 2009
Che tristezza...
Ieri mattina mi sarebbe piaciuto scrivere della grande impresa del Luton Town, che come ormai in tanti sanno ha vinto a Wembley il Johnstone's Paint Trophy. Non me la sono sentita, o meglio non mi andava, ero troppo sconvolto dalle immagini del terremoto dell’Aquila, città dove mia moglie ha tanti parenti (fortunatamente illesi) e dove sono anni che trascorro una parte delle mie vacanze. Insomma, un luogo a cui sono molto legato e che ancora non riesco a credere sia stato ridotto a un cumulo di macerie. Per parlare di nuovo di calcio inglese c'è sempre tempo.
mercoledì 1 aprile 2009
No one likes us
Per il sottoscritto è un periodo fin troppo ricco di impegni, dal punto di vista lavorativo e soprattutto personale. Chi ci rimette è il povero blog... Però visto che sono a Londra per seguire il G20 e che il calendario mi ha regalato un recupero della League One come Millwall-Colchester, posso finalmente riaggiornare UK Footy. Tutto questo sproloquio per dire che sono appena tornato in albergo dopo essere stato al The Den. Buona atmosfera, con i tifosi di casa speranzosi di poter accorciare a sole due lunghezze il distacco della seconda in classifica, il Peterborough allenato dal figliolo di Sir Alex, Darren. Purtroppo per loro i Lions hanno rimediato l'ennesima figuraccia interna della stagione - fuori casa vanno molto meglio, tanto che sono reduci da sei vittorie consecutive, nuovo record del club. I blu ci hanno messo buona volontà, coraggio e tanto cuore, ma poca tecnica e pochissima lucidità. Gli ospiti, seguiti a Londra da un centinaio di supporter, nei minuti finali hanno pescato il jolly con la loro unica azione di rilievo. Una vittoria che non cambia la loro anonima stagione da metà classifica, ma che invece rischia di affossare le speranze di promozione diretta del Millwall. I commenti dei nativi di Londra Sud a fine match erano tutto un programma - e un florilegio di imprecazioni...
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